PREMESSA

 

I fatti e i personaggi che compaiono in questo romanzo sono tutti inventati ed ogni eventuale apparente riferimento a persone, eventi, o luoghi è puramente casuale.


 

CAPITOLO PRIMO

RICORDI D’INFANZIA

 

“Gaaaaiaaaaaa!” tuonò, impaziente, un vocione maschile proveniente dall’altra parte della casa.

“Sì, Alfonso, che c’è?” rispose dalla cucina una voce di donna, dolce e sottile, che sembrava appartenere ad una ragazzina; invece la persona che si affacciò al corridoio, dopo aver aperto la porta col gomito, era un’enorme cinquantacinquenne, infarinata dalla testa ai piedi, che stava preparando gli gnocchi per il giorno dopo, per il pranzo domenicale di tutta la famiglia.

Il suo nome completo, per uno scherzo del destino, o dei suoi genitori, che non avevano voluto far torto a nessuna delle due nonne, era Gaia Dolores, senza la virgola, ma le persone che la conoscevano dall’infanzia la chiamavano semplicemente Gaia, anche se negli ultimi anni aveva cominciato a presentarsi col nome di Dolores, per una strana forma di scaramanzia. Infatti aveva notato che tutti quelli, tra i suoi amici, che avevano un nome beneaugurante avevano fatto proprio una brutta fine: il suo amico Fortunato, che aveva abitato al palazzo accanto, era morto prematuramente, dopo aver trascorso almeno dieci anni a letto per una terribile forma di sclerosi laterale amiotrofica; la sua collega Felicia era morta a sessant’anni, per una emorragia interna, dopo aver subito vari interventi chirurgici e chemioterapie, per un cancro alla vescica,  esattamente pochi giorni dopo che i medici le avevano dato la buona notizia di esserne guarita; la sua amica Elena (il cui padre raccontava sempre a tutti di aver chiamato così l’unica figlia perché voleva che fosse la donna più bella del mondo), a seguito di lutti e malattie varie, aveva cominciato a consolarsi mangiando e in pochi anni era diventata la donna cannone, altro che la donna più bella del mondo! Senza contare Immacolata, la vecchia compagna di liceo, che aveva “flirtato” (e non solo!) con tutti i ragazzi della comitiva! Oh, a proposito, la compagna di banco di Immacolata si chiamava Fausta, ma tutti quelli che la conoscevano facevano gli scongiuri quando l’incontravano perché erano convinti che portasse male!

“C’è Loredana B. al telefono, che vuole farti le condoglianze per tua madre!” urlò il proprietario del vocione, che non aveva l’aspetto dell’orco cattivo, ma quello di un vecchietto magro e un po’curvo, con un bel paio di occhi azzurri e tanti capelli ricci ormai tutti bianchi.

“Chiiii?!” Gaia (o forse dovrei dire “Dolores”, per assecondare la sua piccola mania) era convinta di avere udito bene le singole parole, ma non riusciva a mettere “a fuoco” il significato della frase, perché non solo Loredana B. non l’aveva più chiamata negli ultimi trentacinque anni, ma la madre di Gaia era morta oltre un anno prima.

“Vengo”, aggiunse, affrettandosi lungo il corridoio, mentre cercava di pulire le mani nel grembiule.

Una volta al telefono, passato il primo imbarazzo, la conversazione con la vecchia amica d’infanzia diventò molto facile e scorrevole: Gaia (Dolores?) ricordava tutto dei bei tempi passati con Loredana, Elvira e Rossana, la più piccola delle tre sorelle, che era sua coetanea e quindi la sua vera amica del cuore. Chiacchierarono fitto, fitto, per quasi un’ora e si promisero reciprocamente di non perdersi più di vista, dal momento che Loredana era tornata a vivere a Napoli.

Dopo, Dolores era di nuovo in cucina, alle prese con la sua montagna di gnocchi, che aveva anche un po’ sofferto per essere stata abbandonata così a lungo sul tavolo, e ripensava alla conversazione avuta con Loredana. Una cosa, in particolare, le aveva fatto molto piacere: Elvira, la sorella di Loredana, stava benissimo, si era trasferita negli Stati Uniti ed aveva ottenuto un lavoro importante come interprete in un consolato italiano in America. Elvira aveva solo un paio di anni più di Dolores ed era sempre stata una ragazza dolce e gentile, che non disdegnava di passare il proprio tempo con la sorellina e la sua amichetta. Dolores, che era figlia unica, aveva vissuto in quella famiglia quasi come nella propria, finché un giorno, improvvisamente, i B. si erano trasferiti a vivere in Sardegna per motivi di lavoro. Solo Elvira, purtroppo, era stata costretta a trasferirsi in Toscana, presso una casa-famiglia, dopo essere stata a lungo ricoverata in un centro per la cura delle malattie mentali. Tutto questo, a Napoli, non lo sapeva nessuno, solo Dolores e la sua defunta madre, con la quale la Signora B. si era confidata, qualche volta, al telefono.

Elvira aveva solo sedici anni quando aveva cominciato a manifestare seri disagi, che le avevano anche impedito di ottenere il diploma superiore. Dolores ricordava, dalle ultime notizie che aveva ricevuto, solo un paio di anni prima, tramite le rispettive madri, che Elvira era ancora ammalata e viveva sempre in Toscana. Così fu davvero piacevolmente sorpresa di come le cose fossero cambiate, favorevolmente, in soli due anni. Però non disse niente a Loredana di avere sempre saputo delle difficoltà che la sorella aveva vissuto negli anni precedenti, perché Loredana non sembrava volerne parlare e forse ignorava perfino che Dolores ne fosse al corrente.

Il giorno dopo Dolores (o Dolly, come alcuni dei suoi amici avevano cominciato scherzosamente a chiamarla negli ultimi tempi) andò a fare la spesa sotto casa e dopo pochi passi incontrò proprio la sua vecchia amica, Loredana, che riconobbe subito, perché non era cambiata quasi per nulla. Appoggiata al suo braccio, una donna anziana, obesa, con i capelli brizzolati e l’aspetto trascurato, camminava con difficoltà. Dolores pensò che fosse la vecchia signora B., che non incontrava da tanti anni, ed in effetti le somigliava, ma non era solo molto più grassa, era anche molto più alta. Alla fine capì, era Elvira e Loredana sembrava molto imbarazzata per quell’incontro; anche Dolores lo era, però entrambe si sforzarono di fingere che tutto fosse normale. Dopo un po’ si salutarono, però Elvira non aveva partecipato alla conversazione e non aveva dato segno di aver riconosciuto l’amica d’infanzia.

Pensierosa, Dolores si avviò verso il negozio del fruttivendolo e comprò un sacco di verdure, speranzosa di riuscire a mangiarle, invece dei soliti dolci, per frenare l’aumento di peso che cominciava ad essere preoccupante. Sulla via del ritorno, continuava a pensare ad Elvira: il fatto che fosse grassa e trascurata nel vestire non sarebbe bastato, da solo, a farle pensare che l’amica non fosse realmente guarita, perché ella stessa era diventata il doppio, dopo la menopausa, e poi in America le persone non tengono molto alla linea; però l’espressione assente e gli occhi spenti della sua vecchia amica l’avevano seriamente preoccupata.

La giornata invernale era piacevole, l’indomani sarebbe stato il primo marzo e l’aria profumava già di primavera, così Dolores si fermò su una panchina in piazza, lasciando scivolare a terra le pesanti buste della spesa. In quel momento si accorse che di fronte, su un’altra panchina, sedeva Elvira, da sola, ancora immersa nei propri pensieri. Poi, all’improvviso, cominciò a muovere le labbra, come se stesse parlando sottovoce a qualcuno, ed anche a gesticolare con le mani. Dolores provò una pena profonda, però lo stato un po’ alterato della sua amica non le faceva impressione, perché in passato, dopo aver preso la laurea in lingue, si era iscritta a psicologia e aveva dato anche parecchi esami, superati con ottimi voti, poi aveva dovuto rinunziare a completare quel corso di studi, che l’aveva molto entusiasmata, perché glielo avevano impedito la cura dei figlioletti, che erano arrivati nel frattempo, e il suo lavoro di insegnante.

Così si andò a sedere accanto ad Elvira e le appoggiò con garbo una mano sul braccio, mentre le diceva, con voce dolce e carica di simpatia:

“Ti ricordi di quando ci preparasti le patate fritte?” Elvira si girò di scatto, la guardò, per la prima volta, negli occhi e inaspettatamente scoppiò in una sonora risata, liberatoria, alla quale Dolores si unì, ridendo a sua volta, con tutto il cuore.

Così incominciarono a parlare, allegramente, dei loro ricordi d’infanzia. Nulla più, nell’aspetto di Elvira, sembrava fuori posto ed ora non dimostrava più venti o trenta anni di troppo, anzi, sembrava perfino più giovane della sua età anagrafica.

Elvira si era presa una bella sgridata dai genitori, il giorno in cui, a soli sette, otto anni, essendo restata da sola in casa, per non più di mezz’ora, con le due più piccine, aveva sbucciato e tagliato a pezzettini una patata e l’aveva fritta nella piccola pentola di Rossana; però era diventata un’eroina agli occhi delle altre due. In effetti, tutto era nato da una scommessa, perché le pentole giocattolo “vere” a quell’epoca non esistevano ancora in Italia, ma Rossana le aveva ricevute in regalo da una zia che viveva in America. Dolores non voleva credere che ci si potesse davvero cucinare dentro, così Elvira gliene aveva dato un’ottima dimostrazione pratica, tanto che dopo cinquant’anni Dolores ancora ricordava quanto quelle patatine fossero saporite. Poi continuarono a parlare, a lungo, sorridendo, dei ricordi di tante piccole, grandi, emozioni che avevano condiviso nell’infanzia, dalle canzoni degli anni sessanta, alla prima volta che avevano tentato di far funzionare il juke-box, dal primo mangiadischi, arancione, di Gaia (Dolores), che “rosicchiava” davvero i suoi poveri, malcapitati, dischi in vinile, lasciandoli tutti graffiati, ai loro primi tentativi di imparare il twist e l’hula hop.

Infine, senza pensarci, Dolores domandò:

“Allora, sei stata in America, negli ultimi anni?”

“No”, disse Elvira un po’sorpresa, “non sono mai stata a trovare gli zii, perché ho paura di volare”. Poi il suo volto si rabbuiò e la sua voce tornò piatta, mentre domandava alla sua vecchia amica:

“Tu lo sai, vero, che sono stata ammalata?”

“Sì”, rispose, semplicemente, Dolores, che non se la sentì di mentire. Allora Elvira disse, con voce esitante, mentre guardava la sua amica con gli occhi spalancati, come se ora avesse paura anche di lei:

“Loro si vergognano di me … perciò raccontano che sono stata all’estero ... e si inventano tante assurdità su una mia presunta carriera in America ... Loro si sono sempre vergognati di me, anche quando fui bocciata in prima media e dissero a tutti che ero stata promossa ... Anche quando lasciai le scuole superiori, dopo che mi bocciarono due volte in terza … e …  dissero a tutti che avevo preso il diploma …. Io non ho mai lavorato … Sono stata prima, per tanto tempo, in un istituto e poi in una casa-famiglia. Ora l’edificio dove eravamo alloggiati necessita di importanti lavori di ristrutturazione e, per la prima volta, dopo molti anni, le nostre famiglie sono state praticamente costrette a riprenderci in casa per un po’…  A volte da ragazza sentivo le voci … Adesso ti vergogni anche tu di farti vedere qui seduta a parlare con me?”

“No”, rispose Dolores, sinceramente sorpresa, “perché mai dovrei vergognarmi di te? Forse perché hai lasciato gli studi alle scuole superiori, o perché non hai un lavoro? Ho tante amiche che hanno scelto di fare le casalinghe e non ho problemi a considerare un’amica anche la donna che da tanti anni viene ad aiutarmi nei lavori domestici, che ha frequentato solo i primi due anni delle scuole elementari e non ricorda più, se mai lo aveva imparato, come si legge e si scrive! Se poi ti riferisci al fatto che qualche volta parli da sola, beh, mi dispiace deluderti, ma non mi fa impressione, perché anche mia nonna lo faceva, di tanto in tanto, e questo non le impediva di essere la persona più buona, generosa e simpatica del mondo”. 

Intanto Dolores pensava che Elvira era probabilmente meno folle della sua famiglia, che a forza di emarginarla, nella corsa per l’arrivismo sociale, aveva finito per farne una diversa. In effetti Elvira era sempre stata una ragazza seria, attenta e sensibile, alla quale doveva essere costato davvero tanto fingere di essere stata promossa, perfino di avere preso il diploma superiore, e ricevere le congratulazioni degli amici, mentre soffriva atrocemente, dentro di sé, per la bocciatura. Oltre tutto, Dolores ricordava bene che Elvira avrebbe voluto iscriversi all’Istituto Alberghiero, ma in famiglia avevano deciso che dovesse diventare ragioniera, costringendola a studiare materie che non le piacevano per niente, mentre magari in altri campi avrebbe potuto concludere gli studi con profitto, per poi svolgere il lavoro che le piaceva, nel settore turistico.

“Che programmi hai per oggi?” Domandò Dolores, mentre un’idea prendeva forma nella sua mente.

“Resterò qui a mangiare dei panini”, rispose Elvira, perché mio cognato ha invitato a pranzo delle persone molto importanti per il suo lavoro e ho capito che la mia presenza in casa potrebbe non essere gradita!”

“Ti piacciono gli gnocchi?”

“Altroché!”

“Ieri sera ne ho fatti per un esercito e fra poco arriveranno a casa i miei figli e i miei due nipotini; ti va di conoscerli e di preparare le patate fritte anche per loro?”

“Certo che mi va!”

Così si affrettarono insieme verso casa, chiacchierando allegramente, come se gli ultimi quarant’anni non fossero mai passati, per nessuna delle due.


 

CAPITOLO SECONDO

GITA AL MARE

 

Il pranzo era andato benissimo: Elvira aveva mantenuto la parola e aveva fritto un chilo di patate, conquistandosi le simpatie di tutti, soprattutto dei nipotini di Dolores, con i quali ora stava giocando allegramente a palla nel corridoio, divertendosi come una ragazzina. Dolores e sua figlia stavano riordinando in cucina. Gli uomini erano in salotto a guardare lo sport in TV.

Poi i figli di Dolores salutarono e ripresero la via di casa. Allora anche Elvira disse che si era fatto tardi e doveva rientrare, però Dolores le strappò la promessa che sarebbero uscite insieme la domenica successiva. Così una settimana dopo, in una bellissima giornata, insolitamente mite, rallegrata già dai primi profumi della primavera, Dolores telefonò ad Elvira per ricordarle del loro accordo. Elvira se ne ricordava benissimo, anzi chiese a Dolores di andare insieme a prendere il sole sulla spiaggia. Dolores accettò con entusiasmo, così avrebbe potuto anche mostrare alla sua vecchia amica la minuscola casa per le vacanze che da poco aveva finito di costruire nel suo terreno vicino al mare.

Dolores guidò l’automobile lungo la solita strada, che per lei non aveva nulla di nuovo; invece Elvira, che non viaggiava in macchina da tempo immemorabile, si guardava intorno con curiosità ed interesse. Quando imboccarono l’uscita di Poderia e passarono accanto al vecchio borgo medioevale di San Severino di Centola, Elvira trovò che il paesaggio fosse davvero entusiasmante, in quella stradina che passava in una gola tra i monti, con in alto le rovine dell’antico borgo e in basso il letto pietroso del fiume.

Infine, un po’ stanche, perché il viaggio non era stato breve, arrivarono sulla grande strada che porta all’Arco Naturale. Fecero una pausa al supermercato, dove si sbizzarrirono a riempire il carrello con tutto ciò che nei giorni non festivi sarebbe stato proibito dalla dieta e si rimisero in macchina. Superarono anche il bivio di Palinuro e proseguirono per la piccola frazione di Caprioli. Anche lì per Dolores era tutto abituale, ma quel giorno i colori sembravano più vividi perché erano rallegrati dalla gioia e dall’entusiasmo della sua amica. Infine si fermarono, aprirono un vecchio cancello un po’ arrugginito e imboccarono uno stretto vialetto in salita. Girarono di nuovo a destra in un ampio piazzale e parcheggiarono la macchina. Di fronte a loro Elvira vide prima una grande casa bianca a quattro piani con le finestrine rosse, che in quel momento erano tutte chiuse perché la stagione dei bagni non era ancora incominciata, e poi accanto una minuscola casupola col cemento grezzo e le persiane verdi. Quello era il piccolo regno della sua amica Dolores, che aprì una porta-finestra e la fece entrare in un grazioso soggiorno, dove mise subito in funzione il boiler perché nonostante la bella giornata di marzo la casa, disabitata da mesi, aveva bisogno di un po’ di riscaldamento. La casa era molto piccola, appena una cinquantina di metri quadrati, ma l’interno era arredato con cura, il bagno era spazioso e conteneva una vasca per l’idromassaggio tanto grande che avrebbero potuto fare il bagno insieme, anche loro due che pesavano circa un quintale ciascuna!

Dolores propose ad Elvira di indossare uno dei suoi costumi da bagno per andare sulla spiaggia a godere il sole caldo di quella bella giornata primaverile ed Elvira, che non era più stata al mare negli ultimi quarant’anni e che le ultime volte, poco più che adolescente, c’era andata proprio con Dolores, agli stabilimenti che allora riempivano gran parte del litorale, accettò ben volentieri l’offerta. Però rimase sconvolta quando vide che cosa Gaia intendesse per costume. Infatti le fu proposto di scegliere tra una serie di graziosi bikini, tutti francamente troppo ridotti per la sua mole, e chiese, invano:

“Ma non hai un costume intero?”

“No, mi dispiace; a dire il vero, appena cominciai ad ingrassare, quindici anni fa, mi feci una scorta di costumi interi, ma l’anno scorso decisi di gettarli tutti e di tornare al bikini, perché tanto non cambia niente, si vede lo stesso che sono grassa e sono stufa di stare sempre in punizione per questo!”

Elvira sorrise e capì il punto perché dopo pochi minuti aveva indosso un bikini marrone e si guardava allo specchio sorridendo accanto alla sua amica che ne aveva scelto con noncuranza addirittura uno a righe multicolori. Quindi presero la macchina e andarono a sdraiarsi pigramente sulla sabbia calda.

“Dolly”, disse a un tratto Elvira, “non mi hai domandato nulla della mia malattia!”

“A dire il vero”, rispose l’amica “sono stata sempre molto curiosa di capire perché da un giorno all’altro ti isolasti da tutte noi, ancora prima di andare via da Napoli”.

“Tu prendesti la seconda laurea in psicologia, vero?”

“No, purtroppo no, perché nel 1981 ebbi il posto di ruolo a Vallo Della Lucania e dovendo viaggiare col treno ogni giorno da Napoli, e avendo anche tre bambini piccoli a casa, finii per abbandonare tutto a due esami dalla laurea”.

“Vorrei provare a raccontarti quello che ho passato …” e poi, all’improvviso, come se passasse ad un altro argomento: “Ti ricordi di Marcello L.?”

“Sì, certo che lo ricordo, studiava medicina, vero? Ed era fidanzato con quella ragazza antipatica, che si dava tante arie perché la sua famiglia era molto ricca … come si chiamava?  Marisa … credo … lui, lo vedo ancora qualche volta per la strada e ci salutiamo anche, mentre la fidanzata non l’ho vista più, o forse sarà cambiata e quindi non la riconosco, ... comunque so che ora è sua moglie, perché si sposarono … tanti anni fa … hanno anche una figlia, che dovrebbe essere adulta ora, avrà più di venti anni …”.

Mentre parlava, guardando il mare, Dolores seguiva distrattamente il flusso dei suoi ricordi e non si era accorta che Elvira diventava sempre più pallida e sembrava tremare di freddo nonostante il sole, a mezzogiorno, fosse particolarmente caldo. Però, non udendo nessuna risposta da parte dell’amica, si girò di scatto e capì che quell’argomento suscitava ancora in Elvira dei ricordi dolorosi, dopo tanti anni.

Elvira fece uno sforzo per riprendere a parlare:

“Credevo che mi avrebbe fatto bene confidarmi, ma mi accorgo che non ci riesco, è ancora troppo difficile, però voglio che tu mi aiuti a capire quello che mi è successo; … sai, tornando a casa di mia madre, nei giorni scorsi, diedi uno sguardo ai miei vecchi libri e quaderni, che avevo lasciato in una scatola prima di partire, e ho trovato un diario segreto di quel periodo. Pensi di avere un po’ di tempo per leggerlo?”

“Si, certamente, il tempo lo troverò”, rispose Dolores, un po’ perplessa “però non lo so se le mie conoscenze sono sufficienti per esserti veramente di aiuto. In verità ho continuato, in tutti questi anni, nel tempo libero, a leggere tutto quello che potevo sulla psicologia, la psichiatria e la psicoanalisi, però ho avuto pochissimi contatti diretti con i malati …”.

“Non preoccuparti”, rispose Elvira “è da quando avevo sedici anni che parlo con professionisti, ora ho bisogno di te soprattutto come amica”.

Dolores annuì mentre entrambe scuotevano la sabbia dagli asciugamani per riprendere la via di casa.

Appena a casa, fecero una doccia veloce e ripartirono subito per Napoli perché il giorno dopo Dolores aveva lezione alla prima ora.


 

CAPITOLO TERZO

MATRIMONI NAUFRAGATI

 

Il lunedì pomeriggio si incontrarono di nuovo, in un bar, per chiacchierare ancora un po’ davanti ad una tazza di the caldo. Parlarono di Rossana ed Elvira confidò a Dolores le sue preoccupazioni per il matrimonio di sua sorella, che stava naufragando dopo più di trent’anni di vita tranquilla. Dolores si meravigliò molto che Giancarlo, il marito di Rossana, fosse diventato un farfallone alle soglie dei sessant’anni. Lei lo conosceva bene, o meglio lo aveva conosciuto bene una quarantina di anni prima. Era diventato suo compagno di scuola in terza, al liceo linguistico. Aveva detto a tutti di aver cambiato scuola dopo essersi trasferito da un paese vicino. Ma presto si era saputo che in realtà aveva cambiato dopo essere stato bocciato due volte nella scuola di provenienza. Comunque, a parte i risultati scolastici scadenti, era un bravo ragazzo. Dolores sapeva di essere stata il suo primo amore. Giancarlo aveva anche tutta l’aria di fare sul serio con lei, perché era andato perfino a conoscere i suoi genitori. In effetti, un giorno in cui Dolores era uscita con le amiche, Giancarlo si presentò a casa sua con un profumo e fece una lunga chiacchierata con quella che sperava essere la sua futura suocera. La mamma di Dolores era stata gentile con lui, però gli aveva spiegato che non poteva prendere il profumo a nome della figlia e gli aveva dato il permesso di tornare per parlare con Dolores stessa.

Allora Giancarlo aveva lasciato alla sua amata un bigliettino con delle frasi dolci e poetiche che di sicuro avrebbero intenerito anche un cuore di pietra, se non fossero state sorprendentemente piene di strafalcioni di ortografia. A quell’epoca Dolores non solo era la prima della classe, ma era anche un po’ “secchioncella”, quindi non riuscì a perdonare a quel povero ragazzo la sua ignoranza e lo bollò come uno stupido senza appello. Così, quando si incontrarono di nuovo, gli disse di essersi fidanzata con Luca, “uno grande” che realmente le faceva la corte in quel periodo, ma che in realtà non la attirava particolarmente.

Già, perché dopo un’adolescenza sfortunata, a sedici anni, Dolores aveva seguito una dieta rigidissima e infine era diventata una delle ragazze più popolari della scuola. Poi Dolores stessa aveva presentato Giancarlo a Rossana e un giorno la sua amica le aveva domandato se poteva fidanzarsi con lui o Dolores lo considerava ancora come un proprio corteggiatore. Dolores le aveva risposto ridendo che non ci teneva a quel corteggiatore, ma non se la sentiva di raccomandarlo alla sua migliore amica perché lo considerava un po’ scemo. Poi ebbe a pentirsi di aver parlato così sinceramente, e anche avventatamente, perché i due si fidanzarono per davvero e i suoi rapporti con entrambi non ne guadagnarono affatto.

Intanto che Dolores si era persa nei suoi ricordi, Elvira stava continuando a spiegarle quanto sua sorella fosse triste, con quel marito che si era invaghito per una giovane straniera, probabilmente di pochi scrupoli, e con la prospettiva di trascorrere la vecchiaia in povertà, visto che non aveva un lavoro e lo stipendio del marito non sarebbe bastato a mantenere decorosamente le due famiglie.

Dolores si dispiacque molto dell’accaduto e si ripromise di provare a riallacciare i rapporti con l’amica in difficoltà, se le fosse stato possibile.

Parlando di matrimoni naufragati, finirono per ricordare le strane avventure della loro comune amica, Vera. Vera era stata un’adolescente bella, ricca e fortunata. La sua famiglia si era trasferita a Napoli dal Piemonte perché il padre, che era un chirurgo plastico già abbastanza affermato, aveva appena accettato un’offerta di lavoro molto vantaggiosa da una lussuosa clinica di Napoli. Così affittarono uno degli attici più belli della città e una grossa ditta di traslochi li aiutò a trasferirsi in pochi giorni. Quella fu la prima volta in cui Dolores vide dei mobili trasportati all’esterno di un fabbricato invece che lungo le scale. Presto tutti i ragazzi del rione non parlavano d’altro che della nuova venuta, che era veramente carina e sensuale, con le sue graziose minigonne. Però un brutto giorno si diffuse la notizia che la clinica per cui il dottore lavorava era rimasta implicata in una vicenda giudiziaria piuttosto grave per cui molti medici si erano trovati non solo sospesi dal lavoro, ma anche indagati per vari reati. Il padre di Vera, che era stato uno dei dirigenti, si trovò a rispondere di fatti che molto probabilmente erano stati tutt’al più commessi da altri. La famiglia si trovò da un giorno all’altro in povertà e la mamma si ritenne fortunata quando trovò un lavoro, come baby-sitter, che le permettesse di garantire almeno il necessario alle sue due figlie. Allora vendettero buona parte dei mobili e si trasferirono a vivere in uno scomodo appartamentino al piano terra. Da quel momento molti ragazzi della borghesia napoletana voltarono le spalle a Vera. Ma uno di loro, Marco, l’amava veramente e tra i due ragazzi nacque una storia che avrebbe potuto diventare importante, se il padre di Vera, nel frattempo, non fosse stato riabilitato e ricollocato in un nuovo posto di lavoro, purtroppo molto meno ben pagato, a Bari. Allora la famiglia si trasferì di nuovo e la storia tra i due giovani fu avversata dai genitori di Vera, che speravano di farla sposare al più presto con un uomo ricco, per togliersi il peso di almeno una delle figlie, dal momento che le loro condizioni economiche avevano risentito parecchio di quell’incresciosa situazione, mentre Marco non aveva ancora prospettive di lavoro abbastanza solide. La sfortuna di Vera volle che l’uomo ricco si affacciasse davvero al suo orizzonte, nelle vesti di un giovane di quindici anni più grande di lei, di buona famiglia, già laureato in giurisprudenza e docente universitario in una importante università del nord. Condizionata dai genitori, e conquistata dai regali importanti, che da un po’ di anni non poteva più permettersi, non ancora diciottenne, e quindi alquanto immatura per fare una scelta per la vita, Vera decise comunque di fidanzarsi con quel giovane affettuoso e rassicurante. Ovviamente, voleva concedersi del tempo prima di decidere se fosse il caso di sposarlo. Ma ancora una volta le cose presero una piega inaspettata e Vera, senza neanche avere mai avuto rapporti completi col fidanzato, si trovò vergine e incinta. A quel punto il matrimonio fu programmato molto velocemente. Ma Vera restò vergine per altri venti anni, come se avesse deciso di preservarsi per il suo primo amore. Infatti non accettò mai di avere rapporti completi col marito, il quale continuò a sperare che la “giovane” moglie si sbloccasse, poi la convinse a consultare uno psicologo perché la aiutasse, ma questi la aiutò solo a chiarirsi le idee e a liberarsi del marito, che evidentemente non aveva mai amato. Così Vera andò a chiedere l’annullamento del suo matrimonio alla Sacra Rota, benedicendo il ginecologo che alla nascita del figlio aveva deciso per il parto cesareo. Intanto Marco, che aveva continuato a vivere a Napoli, ancora single, dopo due o tre fidanzamenti falliti, incontrò la sorella maggiore di Vera, che non era mai andata via da Napoli, dove si era definitivamente stabilita anni prima, dopo essersi sposata con un giovane napoletano. Si riconobbero e decisero di andare insieme a prendere un caffè al bar per scambiare quattro chiacchiere e ricordare i vecchi tempi. Il discorso cadde inevitabilmente su Vera e così Marco venne a sapere che il suo matrimonio era naufragato e che lei viveva da sola e lavorava in una città del nord diversa da quella dove era stata in precedenza col marito e col figlio. Impulsivamente si mise in macchina e andò a cercare la sua ex ragazza. Come forse non succede neanche nei romanzi, la loro storia ricominciò da dove l’avevano lasciata. Vera chiese ed ottenne il trasferimento a Napoli e i due si sposarono e vissero felici e contenti, ma solo per un paio d’anni, perché dopo cominciarono i disaccordi e i litigi. Le cause erano banali, ma i risultati furono letali per la loro unione: Vera era sempre vissuta nel lusso, tranne la breve parentesi di un paio d’anni in casa del padre prima del primo matrimonio. Quindi era abituata alla villa, alla cameriera, ai viaggi, ai ristoranti e agli alberghi a quattro stelle. Marco non era abbastanza ricco, ma non era neanche abbastanza generoso, per far fronte alle continue richieste della moglie e presto le incomprensioni distrussero in entrambi l’amore, per lasciare il posto alla delusione e al rancore.

Mentre Dolores raccontava ad Elvira la strana storia della loro comune amica, un cd con le canzoni degli anni sessanta le indusse entrambe a ricordare il dondolo, la rotonda sul mare e le loro buffe esperienze canore e pianistiche ai corsi pomeridiani della scuola media, però poi si salutarono in fretta perché erano uscite per una mezzoretta e invece si era fatto tardissimo.


 

CAPITOLO QUARTO

IL DIARIO

 

 Il giorno dopo, tornando dal lavoro, Dolores, che insegnava inglese in un liceo classico, trovò un pacchettino sulla consolle dell’ingresso; sembrava un libro, avvolto in modo un po’ approssimativo con della vecchia carta da regalo. Lo prese in mano distrattamente, avviandosi verso la cucina con le buste della spesa. Era rientrata nella routine della settimana di lavoro e quasi non ricordava più le conversazioni dei giorni precedenti con l’amica.

Una volta in cucina, posò prima i surgelati, poi lo yogurt e il latte, poi tutto il resto e infine, quasi meccanicamente, svolse la vecchia carta da regalo e sorrise quando vide un buffo, vecchio, diario segreto che lei stessa, tanti anni prima, aveva scelto per la sua amica, che compiva sedici anni, esattamente il tre maggio del millenovecentosessantotto. Era di tela gialla, un po’ scambiata dagli anni, con sopra tanti cuoricini di velluto rosso, di diverse dimensioni, che contornavano quella che prima era stata una serratura con un lucchetto, ma ora era solo un pezzetto di metallo un po’ arrugginito con sopra un gancetto spezzato.

La prima pagina era datata 3 Maggio 1968 e cominciava, come nelle migliori tradizioni, con le parole “Caro diario”, per poi continuare:

forse avrei dovuto scrivere quattro maggio, non tre, perché è già l’una di notte, ma non ho sonno. La mia festa è stata bellissima, i compagni di scuola sono venuti tutti e hanno anche portato tanti amici. Non ho mancato un ballo e sono riuscita perfino a cavarmela meglio di quanto non mi fosse mai capitato prima. Sembrava che non fossi più brutta e timida, ma mi sentivo quasi bella, con il mio nuovo miniabito che attirava, come una calamita, gli sguardi dei fratelli maggiori dei miei amici. Sì, perché c’erano anche i ragazzi di quinta D e perfino due studenti di medicina! Ho conosciuto il ragazzo più bello e affascinante del mondo, sono certa che sarà il mio principe azzurro. Si chiama Marcello, ha ventitré anni ed è già al quinto anno di medicina. Appena me l’hanno presentato, nell’ingresso, mi è sembrato che la sua testa emanasse una luce speciale, quasi come l’aureola dei santi. Marcello è alto e snello e non parla molto, a volte mi sembrava che fosse un po’ timido anche lui, come me. Invece il suo amico, Mimmo, meno alto, ma decisamente carino, è un gran chiacchierone. Loro due sono stati i primi ad arrivare, insieme con la sorella di Mimmo, la mia amica Marianna. Mimmo, quando mi ha presentato Marcello, ha detto “Questo è un mio amico macellaio”. Per un attimo mi sono domandata come fosse possibile che un ragazzo così bello, fine ed elegante, facesse un mestiere così prosaico, ma poi ho capito che quel burlone stava scherzando, riferendosi ai luoghi comuni sulla professione del medico. Personalmente, credo che sia una professione bellissima e se fossi un po’ più brava a scuola mi piacerebbe iscrivermi a medicina. La mia insegnante di italiano dice sempre che ho sbagliato indirizzo di studi perché scrivo meglio dei miei coetanei che studiano nei licei, però è l’unica materia che mi piace, perché poi non riesco proprio a cavarmela col diritto, la matematica, la ragioneria e praticamente tutte le materie che sono considerate importanti all’istituto tecnico commerciale. Marcello è stato meraviglioso: dopo un po’ di imbarazzo iniziale, ha parlato con me di tutto, anche di argomenti medici che non riuscivo a capire, però mi sono guardata bene dal dirglielo, speriamo che la mia espressione non mi abbia tradita! Era proprio difficile seguirlo quando parlava: credo che abbia fatto il liceo classico, perché quando non parlava di medicina ha fatto più volte riferimento ai personaggi dei miti greci, devo assolutamente comprarmi un libro di mitologia facile, se non voglio sfigurare la prossima volta che lo incontrerò. Ma ci sarà una prossima volta? Lui passa buona parte della settimana a Roma, e torna solo per il “weekend”, come ha detto lui, maledetto il giorno in cui i miei genitori, alle scuole medie, mi iscrissero in una sezione di francese. Ora un po’ di inglese l’ho imparato, alle superiori, appena sufficiente per capire il significato della parola weekend, appunto, ma non abbastanza per capire i testi delle canzoni dei Beatles, che sembrano essere un’altra delle sue passioni ... Oh, no, mio padre si è alzato per andare in bagno, se vede che ho ancora la luce accesa comincia una predica senza fine … devo spegnere subito!

 

Domenica 5 maggio

Ieri, all’uscita dalla scuola, con i soldi che mi avevano regalato i nonni per il compleanno comprai tutti i dischi dei Beatles che riuscii a trovare e li ascoltai per tutto il pomeriggio. Poi uscii con Vittoria e dopo un po’, indovina, incontrammo proprio Marcello, che cominciò a passeggiare con noi! Era ancora più bello di come me lo ricordavo e appena lo vidi diventai di tutti i colori, credo, e poi per almeno un quarto d’ora non riuscii a dire assolutamente nulla. Mi sembrava perfino strano che riuscissi a continuare a camminare, tanto mi tremavano le gambe. Però forse lui non se ne accorse, perché Vittoria chiacchierò allegramente per tutto il tempo! Poi, avevo appena cominciato a ragionare di nuovo, quando incontrammo un gruppo di ragazze e ragazzi più grandi e lui ci salutò per unirsi a loro. Al ritorno mi sentivo uno straccio, ma poi Loredana mi ha detto che sabato ci sarà una festa a casa di una delle ragazze di quella comitiva, che è la sorella maggiore della sua compagna di banco, e che se voglio posso andare con lei! Avrei voluto mettermi a cantare e a saltare, però mi sono trattenuta perché non so se posso fidarmi di mia sorella, e se papà capisce qualcosa mi chiude in casa e getta via la chiave! Ora però mi devo mettere a studiare, perché se continuo ad andare così male a scuola rischio di non avere il permesso per la festa.


Domenica 12 maggio

La settimana è passata lentamente, senza nulla di nuovo. Ieri era una giornata molto fredda e piovosa. La casa dei nostri amici era un po’ lontana e mamma mi costrinse a mettere quel brutto vestito blu, invernale, che mi aveva fatto fare dalla sua sarta. Quando arrivai alla festa cominciai subito a sentirmi fuori posto. Marcello fece il primo ballo con me, ma poi entrò in sala una ragazza alta e snella, in minigonna, e fecero coppia fissa per il resto della serata.

 

Martedì 14 maggio

Stamattina mi è successa una cosa a dir poco strana: mentre ci preparavamo per andare a scuola ho cominciato a parlare con mia sorella della visita che ieri sera ci avevano fatto le nostre amiche, Vittoria e Gaia, che erano anche restate a cena con noi, ed io avevo cucinato la pasta al forno per tutti. Ma Rossana mi ha guardata stupita e mi ha detto: perché mi racconti tutte queste bugie? Sarà passato almeno un mese dall’ultima volta in cui qualche amica ha cenato qui con noi. Non ti ricordi che ieri mangiammo un panino al prosciutto mentre guardavamo “Pane, Amore e Fantasia” alla TV a casa della signora Barone?

“Come, un mese”? Ho risposto, mentre mi rendevo conto che c’era qualcosa di vero nelle parole di mia sorella, perché ricordavo bene di aver visto il film di cui Rossana stava parlando. Infatti noi non abbiamo ancora comprato il televisore perché mio padre dice che ci fa distrarre dallo studio e poi costa troppo e consuma corrente, così spesso la sera andiamo dalla nostra vicina di casa, soprattutto quando c’è da vedere un bel film.

“E va bene, scusami, sarà stato l’altro ieri”, le concessi, un po’ perplessa. Ma Rossana non ricordava nemmeno che io sapessi cucinare la pasta imbottita e alla fine ho cominciato a pensare che i miei ricordi della sera prima forse erano in realtà soltanto un sogno che avevo fatto durante la notte. Mi sono guardata bene dall’ammetterlo con mia sorella, altrimenti mi prenderà in giro per il resto dei miei giorni. Invece ho detto “Sì, hai ragione tu, è successo parecchio tempo fa e forse tu non c’eri, deve essere stato quella volta che andasti alla festa di Adriana e restasti a dormire con lei la notte”.

 

 

Domenica 19 maggio

Mi dispiace di non avere avuto il tempo di scrivere nulla, ma oltre tutto non avevo nulla da scrivere: non l’ho visto più; ieri e l’altro ieri costrinsi Vittoria a passeggiare con me per tutto il pomeriggio sotto casa sua, ma lui non è uscito di casa. Poi stamattina a messa mi sono fatta coraggio e ho chiesto di lui al fratello di Marianna e mi ha detto che è rimasto a Roma a studiare perché domani ha un esame.

 

Martedì 21 maggio

Oggi al ritorno da scuola ho trovato una bella sorpresa: Luca, il mio cugino americano, è qui in Italia con degli amici universitari. Ci sono anche un ragazzo e una ragazza di colore. Lui ha pranzato con noi, poi mamma li ha aiutati tutti a trovare una sistemazione per la notte, non a casa nostra, perché purtroppo non abbiamo posto, ma presso una signora che affitta le camere a studenti. Stasera siamo andati tutti a cena fuori, e ci siamo divertiti molto, ma poi è successa una cosa molto sgradevole: ho sentito che da un altro tavolo, alle nostre spalle, degli uomini dicevano, a voce altissima, delle cose orribili sui due ragazzi di colore. Ho guardato mia sorella, che era accanto a me, ma dalla sua espressione ho capito che non aveva sentito nulla; anche l’altra mia sorella sembrava tranquilla, come sempre. Allora mi sono tranquillizzata anch’io perché ho pensato che se le mie sorelle non avevano sentito, di certo i due interessati, anche se studiano italiano all’università, non avranno capito il dialetto salernitano. Ma dopo un po’ quei tipi hanno ripreso, più insistenti di prima, allora ho guardato mio cugino, convinta che lui avesse capito tutto e che stesse per far scoppiare un putiferio nel ristorante, invece lui era tranquillo, come se nulla fosse accaduto. Evidentemente aveva deciso che se gli interessati non avevano capito non era il caso che fosse lui ad informarli. Però quei due alle nostre spalle non la smettevano, così non ho potuto resistere e mi sono girata per vedere come erano fatti e per rivolgere loro almeno un’occhiataccia, ma quando li ho visti sembravano molto diversi da come me li ero figurati: avevano l’aspetto di due distinti signori di mezza età e stavano parlando di arte moderna, con tono pacato. Forse le voci che avevo sentito provenivano da un altro tavolo, più lontano, ma in quella saletta ce n’era solo un altro, di tavoli, ed era occupato da un gruppo di donne e bambini! Forse le persone che avevo sentito stavano passeggiando sul marciapiede, fuori dal ristorante?

 

Sabato 25 maggio

Ho perso tre chili! Al ritorno da scuola ho chiesto al panettiere di lasciarmi pesare sulla bilancia che usa per i sacchi di farina: ebbene, due settimane fa pesavo sessanta chili, mentre oggi ero cinquantasette! Se riesco a dimagrire ancora un po’, forse dopo Marcello lascerà quella spilungona antipatica e mi corteggerà di nuovo come fece alla mia festa. Ieri pomeriggio, mentre andavo in cartoleria a comprare il quaderno di italiano, che mi era finito, sentii due persone, dietro di me, che dicevano che un’altra ragazza della mia età aveva fatto una dieta molto rigida ed era riuscita a dimagrire di dieci chili e poi una casa di moda le aveva offerto di sfilare in passerella. Mi girai per vedere se li conoscevo, così avrei potuto domandare di che tipo di dieta si trattava, ma vidi una persona sola che camminava dietro di me, un signore di mezza età. C’era anche una ragazza, ma stava camminando sull’altro marciapiede. Forse si erano già salutati, e ora lei stava andando via a passo veloce? ... Comunque non li conoscevo e non ebbi il coraggio di fermare nessuno dei due. 


Domenica 26 maggio

Mi sono buscata l’influenza, però sono felice, perché lui mi ha chiamata al telefono per chiedermi come stavo e abbiamo parlato di tutto, per quasi un’ora. Alla fine mi ha promesso che domenica prossima mi porterà a fare una gita in macchina in costiera! Sono la donna più felice del mondo! Però appena starò meglio dovrò uscire a comprarmi qualcosa di bello da indossare, perché non voglio mai più rischiare di sfigurare davanti a lui come successe a quella orrenda festa di quindici giorni fa.

 

Lunedì 27 maggio

Stamattina è successa una cosa tanto bella quanto inaspettata: alle nove erano usciti tutti, tranne me, che non sto ancora proprio bene. Ad un tratto ho sentito bussare alla porta, quindi sono andata ad aprire, pensando che fosse mamma di ritorno dalla spesa, invece era lui, più bello che mai! Mi ha detto che aveva lezione solo di pomeriggio, quindi prima di andare via per tutta la settimana aveva voglia di rivedermi! Quasi dimenticavo, mi ha portato un meraviglioso mazzo di rose rosse! Poi è scappato via perché abbiamo sentito arrivare l’ascensore e abbiamo pensato che potesse essere mamma. E’ la prima volta che un uomo mi regala dei fiori. Li ho nascosti nel mio armadio, sotto le maglie invernali, perché qui, se li trova qualcuno, finisce male.

 

Venerdì 31 maggio

Oggi sono uscita da sola, con in tasca tutti i soldi che mi erano rimasti dalla festa di compleanno, e ho comprato una gonna bellissima e una camicetta a fiori che mi sta uno schianto e poi una giacca nuova, di una lana morbidissima e pelosa, che sembra cashmere! Quando sono tornata a casa ho detto a mamma di avere speso esattamente la metà del prezzo vero, ma ha detto lo stesso che era tutto troppo caro. Ho promesso che la prossima volta ci starò più attenta, ma dentro di me sono felicissima degli acquisti fatti e non vedo l’ora di farli vedere a tutte le mie amiche!

 

Sabato 1 giugno

Oggi siamo andati tutti a casa di Rosa. Ho indossato i vestiti nuovi perché speravo che lui sarebbe arrivato da un momento all’altro, ma non è venuto. Come se non bastasse, poco fa, quando sono tornata a casa, mi è successa una cosa strana e terribile: nel riporre la giacca, ho notato che ha un difetto sotto una manica. Per fortuna è in un punto nascosto, però mi dispiace lo stesso. Non avrebbe dovuto succedere, con quello che l’ho pagata. Non posso neanche andare a cambiarla perché non ho più l’etichetta e comunque adesso i negozi sono chiusi. Domani è domenica e dovrò indossarla in ogni caso perché non ho niente di meglio. Sembra come se qualcuno ne avesse tagliato via un pezzettino con la punta delle forbici. Per fortuna il tessuto non si è rotto, è solo il pelo che è stato portato via, in quel punto. Possibile che qualcuno me l’abbia fatto per dispetto quando la giacca era appoggiata sul letto a casa di Rosa? Chi? Solo lei stessa avrebbe potuto farlo, perché ha insistito con tutti per prendere personalmente le giacche e portarle da sola in camera da letto. Prima avevo pensato che forse la camera era un po’ in disordine e perciò non voleva che entrassimo, ma ora non posso fare a meno di ricordare il suo sguardo invidioso, quando mi ha vista arrivare. Beh, meglio non pensarci: domani sarà una giornata meravigliosa e non permetterò che un taglietto sotto la manica della giacca me la rovini.

 

Domenica 9 giugno

Strano, mi sto accorgendo che nei giorni scorsi non ho scritto niente, invece ero convinta di avere scritto già tutto. Appena ho aperto il diario e non ho trovato nulla ho pensato che qualcuno l’avesse letto e avesse strappato le pagine, ma non mi sembra possibile, perché non manca nessuna pagina. Comunque sono felice, perché domenica scorsa mi sono fidanzata con Marcello. Quando mi svegliai lui era già sotto la mia finestra e suonava una canzone bellissima accompagnandosi con la chitarra. Mi vestii in un lampo e volai nella sua macchina. Dopo un po’ ci fermammo in un prato verde, meraviglioso, e ci abbracciammo, poi ci stendemmo sul prato, sempre abbracciati, e cominciammo a rotolare sull’erba come due bambini che giocano. Poi abbiamo passeggiato, sempre abbracciati, e poi ci siamo baciati. E’ stato un bacio dolcissimo, a bocca chiusa, e lo ricorderò per tutta la vita.

 

 

Domenica 16 giugno

Mi sembrava di avere scritto anche ieri, invece evidentemente volevo farlo e poi me ne sono dimenticata. Comunque questa settimana ci siamo visti tutti i giorni, perché lui non è andato a Roma. Spero che non stia trascurando lo studio per me. Ogni giorno è venuto a prendermi dalla scuola con in mano un regalino: ora nel mio armadio, sotto le maglie invernali, c’è anche una splendida collana di corallo rosa, un profumo di Chanel, una scatola di baci Perugina e una di gianduiotti, un bellissimo foulard di seta bianco e rosso e una farfalla di filigrana d’argento. Però oggi non ci siamo visti, perché stamattina è tornato a Roma. Così sono andata a messa con le mie sorelle e all’uscita ho sentito una cosa strana: la mamma di Marcello diceva ad una sua amica che il figlio manca da Napoli da più di un mese perché si è fidanzato con una ragazza che studia a Roma e nessuno dei due sta più rientrando a casa per il fine settimana. Per un attimo mi sono domandata perché stesse raccontando tante bugie, poi mi sono ricordata che Marcello ha un fratello che studia legge, evidentemente la mamma stava parlando di lui. Però forse ho proprio capito male, perché io l’ho visto più volte, a Napoli, nei giorni scorsi, il fratello di Marcello, con la sua solita fidanzata, che non è universitaria, ma fa ancora l’ultimo anno di liceo.


Sera

Ho provato per tutto il pomeriggio a telefonare al numero della padrona di casa, che Marcello mi diede tempo fa, ma il numero risultava inesistente! Non trovo più il foglietto dove l’avevo scritto, ma sono sicura di ricordarlo benissimo a memoria.

 

Lunedì

Sono disperata: stamattina non sono andata a scuola perché avevo un forte mal di testa, così, quando tutti sono usciti, ho aperto l’armadio e tolto le maglie pesanti per accarezzare tutti i miei tesori, ma non c’erano più. Forse mamma li ha trovati mentre riordinava e li ha nascosti perché non sa se sono miei o di Loredana, così aspetta che una di noi si tradisca: che faccio, ci riesco a fare finta di niente? Intanto continuo a telefonare invano al numero di Roma, ma è sempre sbagliato. Stanotte non sono riuscita a dormire neanche un minuto e dopo essermi rigirata nel letto non ce l’ho fatta più e mi sono alzata e ho cominciato a camminare su e giù per la stanza. Alla fine Rossana si è svegliata e le ho detto che avevo mal di stomaco perché avevo mangiato un’arancia dopo cena e avevo fatto acido. Per fortuna si è riaddormentata quasi subito e non si è accorta che sono rimasta alzata fino alle prime luci dell’alba.

 

 

Martedì

Stamattina, mentre andavo a scuola, mi è successa una cosa strana: mi sembrava che i disegni sulle mattonelle del marciapiede si sollevassero. Poi a scuola alla terza ora vedevo i compagni e il professore di ragioneria che ondeggiavano, come se fossimo tutti su una nave. Questa influenza deve avermi proprio ridotta uno straccio. Forse sono anche stanca perché nemmeno stanotte sono riuscita a dormire.

 

Sera

Oggi dopo pranzo mi sono stesa sul letto e mi sono addormentata, ma dopo un po’ mi sono svegliata sentendo i vicini che parlavano male di me: dicevano che sono diventata una ragazza poco per bene e non si meraviglierebbero se venissero a sapere che aspetto un bambino. Ho guardato mia sorella che stava studiando lì vicino, convinta che stesse per scoppiare un putiferio, ma per fortuna era così immersa nello studio che non ha sentito nulla.

 

Mercoledì

Oggi, quando tornavo dalla scuola, avevo i libri pesanti e mi sentivo stanca, così ho preso l’ascensore. Appena ho chiuso le porte ho sentito i portieri che bisbigliavano qualcosa su di me: non ho capito tutte le parole, ma sono sicura che anche loro pensino che sono incinta.


Venerdì

Oggi pomeriggio mamma mi ha chiesto di aiutarla a fare le provviste, così siamo uscite insieme. Mentre tornavamo, con in mano le buste della spesa, delle persone dietro di noi hanno detto qualcosa tipo: sembrava una così brava ragazza, non bisogna mai fidarsi delle apparenze. Ho guardato mamma, convinta che fosse la fine, ma per fortuna lei non ha capito che parlavano di me. Quanto mi manca Marcello! Quando sono tornata gli ho scritto una lunga lettera, per dirgli quanto mi ha resa felice quel giorno in cui andammo a baciarci e abbracciarci su quel prato meraviglioso. Però non so dove mandargliela. Sarà meglio che la conservi dentro il diario e quando verrà la leggeremo insieme. Ora devo andare a cena prima che vengano a chiamarmi e si accorgano che non sto studiando. Forse lui telefonerà presto per dirmi che è arrivato a Napoli e domani possiamo finalmente uscire insieme. Devo stare vicino al telefono, così posso rispondere e fingere che sia Vittoria. Una volta, qualche settimana fa, rispose mamma al telefono, ma lui disse che era un compagno di scuola e che gli serviva l’assegno per il giorno dopo.

 

Sabato

Anche la notte scorsa non ho chiuso occhio e stamattina ero tentata di dire ai miei genitori che mi sentivo male e volevo restare a casa, ma poi ho pensato che dovevo far finta di niente e uscire altrimenti poi mi sarebbe stato difficile incontrare il mio amore. Speravo di trovarlo prima di entrare a scuola, e allora avrei fatto filone per stare con lui un po’ di più, ma non c’era, così sono entrata, però mi sono giustificata in tutte le materie e per una volta i professori non mi hanno fatto nemmeno tante storie, anzi quella di italiano mi ha guardata e sembrava veramente preoccupata per la mia salute. In effetti avevo gli occhi molto arrossati perché mentre salivo le scale, all’ingresso, avevo sentito delle ragazze di un’altra classe che parlavano di me alle mie spalle e dicevano che il mio fidanzato si era già stancato di me perché sono troppo brutta e dovrei almeno rifarmi il naso. Poi una ha detto che non poteva credere che mi avesse mai baciata, col mio alito orribile. Un’altra ha detto che i miei vestiti hanno un cattivo odore, perché non li lavo mai. Allora non sono entrata subito in classe, ma sono andata in bagno a piangere. Poi alla quinta ora ho chiesto alla professoressa di uscire e sono andata di nuovo in bagno a truccarmi per bene, perché ero convinta che lo avrei trovato fuori ad aspettarmi, invece lui non c’era. Non ce la faccio più ad aspettare, fra poco trovo una scusa per uscire da sola e vado a cercarlo a casa.

 

Domenica

Anche stanotte non ho dormito quasi per nulla. Ora sono tutti a messa, ma io ho detto di avere un po’ di febbre e sono rimasta a casa. Non ho dovuto nemmeno insistere perché mi hanno creduto subito: chi è così stupida da restare a casa di domenica se non si sente male davvero? Ieri sera andai a citofonare a casa di Marcello e mi rispose il fratello. Gli dissi che si trattava di una cosa importante, allora mi fece salire. Era solo in casa, perché, disse, “Marcello non torna a Napoli neanche questa settimana, non lo vediamo da più di un mese, mamma è furiosa”. Mi domando perché tutti continuino a dire questa strana bugia, però non ho avuto il coraggio di chiederglielo, l’ho solo pregato di fare avere la mia lettera al fratello e di dirgli di contattarmi appena possibile e lui mi ha assicurato che Marcello tornerà certamente in settimana, forse dopodomani, per il matrimonio della cugina.

 

Lunedì

Inutile dire che neanche oggi l’ho visto. Però è stato meglio così. Infatti stamattina alla seconda ora siamo stati da soli, perché mancava la professoressa, però non è stato divertente, perché Iole, la mia compagna di banco, si allontanava da me ogni volta che parlavo. Ho cambiato posto, ma anche l’altra ragazza ha fatto la stessa cosa. All’uscita mi sono fermata a comprare uno spazzolino e un dentifricio da viaggio, così prima di uscire da scuola mi posso lavare i denti nel bagno. Poi, a casa, mi sono guardata a lungo i denti allo specchio per vedere se ci fosse qualche carie. Alla fine ho detto a mamma che mi facevano male tutti i denti per convincerla a portarmi dal dottore Francia, il nostro vecchio dentista. Lui è stato molto gentile e ci ha dato subito un appuntamento, però non ha trovato nulla né ai denti né alle gengive e ha detto che forse era una nevralgia dovuta a un colpo di freddo. Allora gli ho detto che il motivo principale per cui ero lì era che le mie compagne dicevano che ho l’alito cattivo e lui mi ha consigliato di mangiare cibi leggeri, di bere più spesso, e di lavare i denti qualche volta in più, e di consultare il medico di famiglia se dovesse accadere ancora.   

 

Martedì

Oggi, dopo la scuola, finalmente l’ho rivisto. Prima ero stata in bagno a lavare i denti e rifare il trucco. Però lui era completamente diverso. Si è fatto crescere la barba e i baffi e non mi sembrava nemmeno più lui. Quando lo incontrai la prima volta, alla festa, non aveva né la barba né i baffi, poi quella domenica, quando venne a prendermi a casa, aveva solo i baffi, biondi, ed era bellissimo,  però mi disse che li avrebbe tagliati, per non pungermi quando mi baciava. Infatti dopo, quando mi veniva a prendere all’uscita dalla scuola, non li aveva più. Ora invece aveva la barba e i baffi neri, ed erano anche troppo lunghi per essergli ricresciuti in così pochi giorni. Che fossero finti? Quale sarà il mistero nella sua vita che obbliga i familiari a dire che lui non è a Napoli, mentre è evidente che c’e? Oggi aveva anche un’altra macchina, grigia, completamente diversa da quella sportiva, rossa, che aveva il giorno in cui venne a prendermi sotto casa. Gli ho domandato che ne avesse fatto della macchina rossa dell’altra volta e mi ha risposto che non ne ha mai avuta una. Aveva in mano la mia lettera e mi ha fatto una domanda stranissima:

“Stai scrivendo un romanzo d’amore?”

“No, perché?”

“Allora è una lettera per il tuo ragazzo?”

“Sì!”

“Beh, sono certo che sarà molto contento quando gliela darai, la mia ragazza non è romantica come te, ma se lo fosse non mi dispiacerebbe. Ciao, buona fortuna!”

Mi ha messo la lettera in mano ed è andato via, come se non ricordasse più nulla della nostra storia. 

 

 

Mercoledì

Stamattina, dopo un’altra notte insonne, non ce l’ho fatta più e sono esplosa. Ho chiesto singhiozzando a mia madre di ridarmi subito tutte le mie cose che aveva preso dall’armadio, ma dalla sua espressione ho capito che davvero non ne sapeva niente. Anche le mie sorelle sembravano sincere quando mi hanno giurato che non ne sapevano niente. Perfino mio padre si è guardato bene dal fare una scenata, quando ho parlato del mio fidanzamento, ma mi guardava in silenzio, con gli occhi spalancati, come se fosse spaventato. Allora chi le ha prese, tutte le cose che Marcello mi aveva regalato?

 

Giovedì

Stamattina non sono andata a scuola, mi sentivo troppo uno straccio. Verso le dieci è venuto a farci visita il figlio di un amico di mio padre che non avevo mai visto prima, uno strano tipo, che insisteva per conoscere tutta la famiglia. Io non avevo proprio voglia di incontrare nessuno, ero ancora in pigiama e quando mi sono guardata allo specchio avevo un aspetto talmente spaventoso che per un po’ ho creduto che le mie sorelle mi avessero fatto uno scherzo e avessero messo qualche diavoleria deformante davanti allo specchio per farmi dispetto. Comunque tutti hanno insistito che dovevo conoscerlo e alla fine mi sono rassegnata. Oltre tutto, dopo un po’ sono spariti, ognuno con una scusa più o meno sciocca, e mi hanno lasciata da sola ad intrattenerlo. Lui sembrava incredibilmente interessato a tutto quello che faccio, alla scuola, al tempo libero, ai miei amici, e alla fine, non so come, mi sono trovata a confidargli tutte le strane cose che mi sono capitate negli ultimi giorni. Per un po’ ho perfino pensato che i miei genitori avessero chiamato un investigatore perché scoprisse come mai a casa nostra ultimamente le cose spariscono dagli armadi, ma poi lui mi ha detto che fa lo psichiatra in una clinica in Toscana e mi ha perfino chiesto se mi va di andarla a visitare. Se mio padre non fosse così contrario ai fidanzamenti precoci, penserei che stessero cercando di combinare un matrimonio per me o per Loredana.

 

Venerdì

Anche oggi, alle dieci, è arrivato lo stesso tipo di ieri. Questa volta in casa c’eravamo solo mamma ed io, così non ho potuto rifiutarmi di intrattenerlo mentre lei andava a preparare un caffè. Mi sembrava di vivere in un incubo. Mi ha rifatto quasi tutte le stesse domande di ieri, ho perfino dubitato che avesse il morbo di Alzheimer, come mio nonno, però lui non dimostra più di una quarantina d’anni e non sarebbe neanche brutto, se non fosse così noioso. Intanto quel caffè non arrivava mai. Forse mamma si era dimenticata di mettere l’acqua e ha bruciato la caffettiera. Io non volevo essere scortese, ma avevo tanto sonno e non vedevo l’ora di tornare a letto. Alla fine perfino lui si deve essere spazientito, perché ha chiamato mamma e ha chiesto se era pronto il caffè. Allora ne ho approfittato per prendere commiato e rifugiarmi finalmente sotto le coperte in camera mia. Però a quel punto mi sono ricordata che non avevo preso lo sciroppo per la tosse, così ho riaperto a malincuore la porta della mia stanza e mi sono rassegnata a ripassare davanti a quella del soggiorno, sperando dal più profondo del cuore che non mi chiamassero di nuovo ad intrattenere l’ospite, ma ho notato che lui e mia madre in quel momento stavano parlando sottovoce dietro la porta socchiusa. Erano in piedi dietro il vetro e li vedevo gesticolare, ma non si sentiva nulla di quello che dicevano. Sollevata, sono andata in cucina e mi sono avvicinata in punta di piedi all’altra porta che divide la cucina dal soggiorno, per chiuderla senza che mi vedessero, ma per fortuna era già socchiusa e d’altronde loro sembravano così immersi in conversazione da non accorgersi di me. Però in quel momento ho sentito pronunziare il mio nome e mi sono fermata incuriosita per sentire che cosa dicessero. Lui ha detto “Spero di sbagliarmi, ma mi sembra un inizio di schizofrenia”. Evidentemente stavano parlando di mia cugina, la figlia del fratello di papà, che si chiama come me e l’anno scorso tentò di suicidarsi quando il fidanzato la lasciò e si mise con la sua migliore amica. Comunque adesso devo proprio coricarmi e chiudere gli occhi perché ho la nausea e vedo tante strane luci colorate.

 

Sera

Oggi, dopo pranzo, stavo dormendo in santa pace, quando mi sono svegliata di soprassalto perché i miei stavano litigando. Parlavano ancora della storia di mia cugina e ad un tratto Loredana ha detto che bisogna internarla al più presto, magari in un’altra regione, senza che nessuno sappia nulla della sua malattia, altrimenti il suo fidanzato, che appartiene ad una famiglia molto benestante e all’antica, potrebbe decidere di non sposarsela più. Mi domando che cosa c’entri il fidanzamento di mia sorella Loredana con la storia della nostra sfortunata cugina. Oltre tutto Elvira non vive nemmeno a Napoli, ma a Contursi, e non credo che abbia mai incontrato nessuno della nostra comitiva. Però, a pensarci bene, forse è stato fatto qualche pettegolezzo su di lei anche qui a Napoli ... allora è possibile che anche la famiglia del mio fidanzato lo abbia obbligato ad allontanarsi da me per quel motivo? ... Se è così lui mi ama ancora e prima o poi  riuscirò a convincerlo a tornare!”

 

“Fine della storia”, pensò mestamente Dolores, davanti a quel diario stropicciato dove da quel momento Elvira non aveva mai più scritto nulla. Strano come i ricordi e le emozioni della sua amica fossero in fondo simili ai suoi. Anche lei era stata un’adolescente grassoccia e complessata e nonostante avesse solo tredici anni aveva “perso la testa” proprio per lo stesso ragazzo che aveva fatto letteralmente impazzire Elvira. Anche lei aveva partecipato alle stesse feste, in qualità di amica delle sorelle minori, ma era rimasta seduta in un angolo, perché nessuno dei ragazzi si era mai sognato di farla ballare. Ricordava che una volta, per sembrare più adulta, aveva messo ai piedi un paio di scarpe con cinque centimetri di tacco, prese in prestito proprio da Loredana, e dopo aver indossato il vestitino a fiori rosa, romanticamente infantile, che la mamma le aveva comprato per l’occasione, aveva stretto la vita in un’alta cintura di raso beige che apparteneva ad un abito elegante di sua madre, appunto,  nella speranza di assumere un aspetto un po’ più da adulta. Ma appena entrò nella sala della festa quel burlone di Mimmo disse, senza alcuna pietà, davanti a tutti, “Gaia ha cercato di nascondere la pancia sotto la cintura”! Marcello era lì accanto, ma non rise, come tutti gli altri. Al contrario, finse di non aver sentito e cominciò disinvoltamente a parlare d’altro. Poco dopo, Gaia (Dolores) lo vide ballare con Elvira e poi lo vide anche flirtare, per tutta la serata, con quell’antipatica di Marisa, che si dava tante arie con i suoi vestiti firmati.

In quel momento il suono del telefono la fece trasalire, interrompendo bruscamente il corso dei suoi pensieri. Alzò lo sguardo verso il grosso orologio della cucina e si accorse che segnava le quattro di pomeriggio! Era stata così immersa prima nella lettura e poi nei suoi ricordi che non si era accorta del tempo che passava e non aveva né cucinato né mangiato nulla.

“Pronto”?

“Ciao, Gaia, scusami se mi sono dimenticato di avvertirti prima, ma non sono ancora ripartito da Caprioli perché i potatori stanno ancora lavorando. A mezzogiorno abbiamo mangiato i panini insieme. Conservami il pranzo che me lo riscaldo stasera quando torno”.

“Oh, Alfonso, sì, va bene, ora metto tutto in frigo”, mentì Dolores, per non deludere il marito, e anche per evitare di dargli troppe spiegazioni, poi si affrettò a salutarlo perché a quell’ora avrebbe già dovuto essere di nuovo a scuola per la prima lezione del corso di recupero che il collegio dei docenti aveva imposto a tutti gli studenti che non avessero riportato la piena sufficienza. Aveva ancora la giacca addosso e le scarpe ai piedi, quindi riprese in fretta la borsa e a passo svelto raggiunse il liceo, che per fortuna era a tre passi da casa sua. Per la prima volta in tanti anni non aveva mangiucchiato ininterrottamente dall’una alle tre, anzi, era digiuna dalle otto del mattino e non aveva neanche un po’ di appetito.

Entrò nell’aula di prima B e trovò una sola ragazza ad aspettarla, Chiara De Marco. Le domandò come mai gli altri non ci fossero e la ragazza rispose che l’indomani ci sarebbe stato il compito di greco, quindi avevano preferito restare a casa a ripetere le regole che la professoressa aveva spiegato nelle ultime lezioni. Dolores indovinò che Chiara era talmente convinta di non poter riparare in greco, perché ricordava bene che la collega l’aveva classificata impietosamente con due e tre, che aveva preferito tentare di recuperare almeno in inglese. Infatti, probabilmente la lingua straniera era stata una delle sue materie migliori, dove aveva faticosamente conquistato un quattro allo scritto e cinque all’orale. Dolores provava simpatia per quella ragazzina che a sedici anni pesava già più di lei, che ne aveva invece cinquantacinque. Comunque, non appena si era seduta in cattedra, e aveva aperto il registro, si era un po’ rilassata, nel riprendere la routine quotidiana, e finalmente si era anche accorta che stava svenendo per la fame. Allora aprì la borsa, dove conservava sempre una riserva di cracker, saporiti e ipercalorici, all’olio di oliva, pomodoro e formaggio, e ne allungò un pacchettino all’alunna dicendo:

“Ti dispiace se mangiamo prima qualcosa? Oggi ho avuto degli impegni imprevisti e non sono tornata a casa per il pranzo”.

La ragazza, che poco prima si era disperata, ritrovandosi da sola con l’insegnante, pensando che in due ore avrebbe potuto interrogarla sul programma di tutto il primo quadrimestre, si rischiarò subito in volto e accettò con gratitudine quel diversivo inaspettato. Mentre sgranocchiava un cracker, le domandò se avesse mai assaggiato il Marsh Mallow e le confidò di avere un’amica americana che incontrava ogni anno al mare in costiera e le parlava sempre di quel particolare tipo di zucchero filato che piaceva tanto ai ragazzini inglesi e americani. Nell’ultima lettera le aveva anche promesso che al suo ritorno in Italia, l’estate successiva, gliene avrebbe portato un pacchetto.

Intanto Dolores pensava a quella povera ragazzina, che sarebbe uscita da scuola alle sei e probabilmente sarebbe rientrata a casa non prima delle sette, perché abitava abbastanza lontano dalla scuola, e a quell’ora avrebbe dovuto tentare di fare tutti i compiti per il giorno dopo, anche quelli di inglese. Così si offrì di aiutarla prima a fare i compiti di inglese per il giorno dopo e poi rivedere insieme qualche argomento di ripetizione. Chiara gliene fu molto grata e inaspettatamente, in assenza dei compagni, che evidentemente la intimidivano, cominciò a leggere in inglese il brano che era stato assegnato per il giorno dopo meglio della maggior parte dei suoi coetanei.


CAPITOLO QUINTO

POESIE D’AMORE

 

Il giorno dopo era mercoledì e Dolores era libera, quindi se la prese molto comoda: fece un lungo bagno caldo con l’idromassaggio, lavò i capelli, ma non si vestì per uscire, invece indossò un morbido pigiama pulito e andò, con in mano il suo cappuccino bollente, ad esercitarsi al pianoforte. Intanto pensava a quanto lo aveva desiderato, invano, quel pianoforte, a dieci anni, quando andava con le amiche ai corsi pomeridiani di musica e canto. Il giorno prima Elvira le aveva fatto ricordare di quel famoso saggio ginnico a cui aveva partecipato in prima media, vergognandosi alquanto per la ciccia che fuoriusciva dal costume, che le maestre avevano scelto, uguale per tutte le bambine, senza tener conto del fatto che alcune fossero cresciute un po’ troppo in fretta, in quell’anno scolastico.

Si ricordò, come se fossero passati pochi giorni, di quanto avesse invidiato Paola D., che era stata scelta per cantare “La Spagnola”, indossando un bellissimo abito rosso con le rouches e ballando a tempo di musica. Lei, invece, era stata scelta, fra tutte, dalla maestra di teatro, per recitare un complicato componimento che nessun’altra aveva saputo leggere altrettanto bene. Ma quando si era trattato di provare alla presenza del preside le era andata via la voce e un’altra ragazzina, Olga C., che pochi minuti prima non aveva saputo leggerlo, aveva chiesto di poter provare di nuovo e imitandola era riuscita a soffiarle il posto!

Beh, almeno col pianoforte ultimamente era riuscita a riguadagnare un po’ del tempo perduto! Ricordava ancora quanto si fosse rattristata quando i corsi erano stati interrotti alla terza lezione perché l’insegnante era stata trasferita in un’altra scuola. Allora aveva espresso il desiderio di frequentare un corso privato, ma i genitori erano stati poco comprensivi, perché avevano temuto che la musica potesse distrarla dagli studi, quindi aveva dovuto rinunziare per sempre, o quasi, perché un paio di anni prima, a cinquantatre anni, aveva deciso finalmente di comprarne uno, e di iscriversi ad un corso per principianti, ed ora era emozionata come una ragazzina quando le riusciva di suonare abbastanza bene “Per Elisa” di Beethoven o l’Ave Maria di Schubert! Quindi si esercitò per una buona mezz’ora, ma poi si accorse che era tardi e doveva vestirsi in fretta, perché aveva promesso a Liliana, un’ex alunna dei tempi in cui insegnava all’Istituto Professionale Alberghiero, di aiutarla a preparare l’esame di letteratura inglese per il primo anno di università.

Mentre aspettava, sorrise fra sé ripensando al primo compito in classe che quella ragazza le aveva consegnato alcuni anni prima. Una delle domande, sull’uso dell’imperfetto del verbo essere, era:

Come renderesti in inglese la frase “Era domenica”? Invece di tradurre “It was Sunday”, Liliana aveva cercato su un dizionario la parola “era” e aveva trovato “age”, così aveva tradotto: “Age Sunday”!

Qualcosa di molto simile aveva fatto con un’altra frase, in cui doveva dire ad un amico inglese che abitava a Roma. Anche allora, cercò “abito” sul dizionario e quindi le domandò:

“Professoressa, ma devo tradurre “abito” con “dress” (abito da donna) o con “suit” (abito da uomo)?”

A quell’epoca, Dolores non avrebbe mai pensato che quella ragazza potesse arrivare all’università, ma poi, pian piano, le cose erano cambiate e Liliana si era appassionata allo studio dell’inglese, fino a diventare una delle sue alunne migliori.

Giorni prima l’aveva incontrata per la strada e le aveva confidato che, provenendo da un istituto professionale, era una delle poche, nel suo corso, a trovare serie difficoltà col programma di letteratura, anche perché il corso monografico era sulla poesia d’amore, a partire da Sir Thomas Wyatt e dagli elisabettiani, che ovviamente usavano una lingua alquanto diversa da quella attuale.

In quel momento suonarono alla porta e Dolores andò ad aprire e si trovò davanti Liliana, una bella ragazza bruna, vivace e intelligente, dai capelli ricci e dagli occhioni nerissimi. Non era molto alta ed aveva qualche chiletto di troppo, però aveva fatto battere velocemente i cuori di molti compagni di scuola. Nei primi anni era stata una studentessa in difficoltà, perché i genitori, entrambi semianalfabeti, lavoravano duramente per mantenere decorosamente i tre figli e a lei, che era la prima, spesso toccava anche la cura degli altri due.

Cominciarono a leggere un sonetto di Sir Thomas Wyatt, “Pace non trovo”:

I find no peace, and all my war is done;

I fear and hope, I burn and freeze like ice;

I fly above the wind, yet can I not arise;

And nought I have and all the world I seize on (…)

 

Poi lo paragonarono al sonetto CXXXIV del Petrarca, che era stato indubbiamente fonte di ispirazione per il poeta inglese:

Pace non trovo, e non ho da far guerra;

E temo, e spero; et ardo e sono un ghiaccio;

e volo sopra ‘l cielo, e giaccio in terra;

e nulla stringo, e tutto ‘l mondo abbraccio (…)

 

Poi passarono al sonetto LXXV di Edmund Spenser:

One day I wrote her name upon the strand;
But came the waves and washed it away;

Again, I wrote it with a second hand;

But came the tide, and made my pains his prey.

Vain man, said she, that dost in vain assay

A mortal thing so to immortalize;

For I myself shall like to this decay,

And eke my name be wiped out likewise.

Not so, (quoth I) let baser things devise

To die in dust, but you shall live by fame;

My verse your virtues rare shall eternize,

And in the heavens write your glorious name.

Where whenas death shall all the world subdue,

Our love shall live, and later life renew.

 

Un giorno scrissi il suo nome sulla spiaggia;

ma vennero le onde e lo lavarono via;

di nuovo, lo scrissi per la seconda volta;

ma venne la marea e fece preda delle mie pene.

Uomo vano, ella disse, che tenti invano

di immortalare così una cosa mortale;

perché io stessa allo stesso modo finirò,

ed anche il mio nome sarà cancellato alla stessa maniera.

Non così, dissi io, lascia che le cose più umili decidano

Di morire nella polvere, ma tu vivrai per fama;

i miei versi renderanno eterne le tue rare virtù,

e nei cieli scriveranno il tuo nome glorioso.

Dove, quando la morte soggiogherà tutto il mondo,

il nostro amore vivrà, …

 

“Professoressa, come mi piace, quando leggete le poesie d’amore; anche la volta scorsa, quando parlammo di Romeo e Giulietta, mi ci sono appassionata molto di più di quando l’ha spiegato il professore all’università!” disse Liliana, con simpatica spontaneità, e Dolores non aveva difficoltà a crederle, perché anche a scuola, quando spiegava le poesie d’amore, riusciva ancora, dopo tanti anni, a comunicare agli alunni le emozioni che non avevano mai smesso di suscitare in lei stessa.

Poi Liliana andò via e Dolores si ritrovò, all’improvviso, a pensare, con gli occhi pieni di lacrime, a quando ella stessa, diciottenne, aveva scritto una poesia d’amore:   

 

AMORE E LUTTO

Sei forte e sei robusto,

sei bello e intelligente,

sei padre e sei fratello,

mio amico e mio amante.

Sono madre e son figlia

del mio unico fratello,

vorrei esserti sorella.

Ti cerco, son ferita,

guarisci le mie piaghe.

Sei sano e sei malato,

sei vivo e sei morto.

Sei qui sulla terra

Per darmi conforto.

Ti cerco nel cielo,

ci sei, nel ricordo.

Da quando ti ho visto

Non sono più sola.

Accarezzo il tuo viso,

ti stringo le mani,

ti tocco i capelli,

ti bacio la fronte.

Ti parlo di me,

mi parli di te.

Insieme piangiamo,

insieme ridiamo.

Mi guardi nel cuore

e sai quel che provo.

Ti guardo negli occhi

E so quel che pensi.

Sei padre e sei figlio,

sei cane e sei gatto,

criceto e coniglio,

sei orsetto la notte,

sei medico e  farmaco.

Ti penso di giorno,

ti sogno di notte.

Ti cerco e ti trovo,

sei bello e son bella,

ti amo e tu mi ami

ma non ci sei più.

Sei casa e focolare,

passeggiata in riva al mare.

Sei il canto degli uccelli,

sei volo di farfalle,

sei il fiume e la montagna,

sei musica e poesia,

quadro e fotografia.

Sei l’arte e la natura,

con te non ho paura.

Sei cinema e teatro,

sei abito e gioiello,

se stringo la tua mano,

se guardo nei tuoi occhi,

son ricca senza soldi.

Sei festa e sei la gioia,

il ballo e l’allegria,

Natale e Capodanno,

sei Pasqua e compleanno.

Ti amo e tu mi ami

Però non ci sei più!

Sei un corpo senza vita

Lapide al camposanto

Anch’io sono finita

Quel giorno insieme a te.

 

L’aveva dedicata al primo grande amore della sua vita, quello splendido ragazzone, forte e tenero, col quale era stata fidanzata per sei mesi, fino a quando un giorno lui aveva accettato il passaggio di un compagno sul motorino e pochi minuti dopo aveva trovato la morte contro un camion ad un incrocio.

Tante volte Dolores aveva letto in classe la poesia di Spenser, ma non aveva mai messo in rapporto le due storie d’amore. In verità, da tanto tempo credeva di avere quasi rimosso i ricordi terribili di quel periodo della sua vita, però negli ultimi giorni il diario della sua amica, che era impazzita per un amore deluso, l’aveva indotta a riflettere che anche lei, in qualche modo, era impazzita dopo la morte del suo ragazzo. Perché in apparenza si era fatta forza e presto si era fidanzata e sposata con un altro uomo, di dieci anni più grande di lei, che allora le era sembrato gentile e comprensivo; ma in realtà aveva accettato, follemente, all’età di vent’anni, di sposare un uomo che per lei rappresentava più che altro un amico simpatico, non come ci si aspetterebbe da una ventenne innamorata, ma quasi come una vecchia zitella in cerca di compagnia.

Poi se ne era pentita mille volte, perché l’amico simpatico e protettivo si era prestissimo trasformato in un vecchio egoista, maschilista e brontolone, e mille volte era stata sul punto di lasciarlo, ma poi aveva sempre chinato il capo, per amore dei tre figli, come aveva sempre creduto, ma forse anche perché le sembrava di averlo, per certi versi, un po’ ingannato, nel momento in cui, ancora giovane ed inesperta, si era fidanzata con lui, provando un sincero affetto, ma non un amore appassionato e neanche una vera attrazione fisica nei suoi confronti.

Mentre ripensava a tutti quei ricordi non lieti, che per tanti anni aveva creduto di essere, faticosamente, riuscita a seppellire nel dimenticatoio, si avviò mestamente verso la cucina perché era già molto tardi e presto Alfonso sarebbe tornato, affamato, come sempre.

Ma in quel momento suonò il telefono: era Alfonso e le disse che se non le dispiaceva per quel giorno avrebbe fatto uno spuntino fuori con un collega. A Dolores non dispiaceva per niente, anche perché non aveva ancora cucinato nulla, ma si guardò bene dal dirglielo, perché il marito non era molto comprensivo e lei non era per niente dell’umore adatto per una discussione, così si limitò a rispondere: “Va bene, ora telefono ad Elvira e magari andiamo insieme a mangiare un panino ai giardinetti, ciao”.

Quindi compose il numero di Loredana e chiese di Elvira, ma le risposero che era fuori con degli amici. Dolores era un po’ stupita, ma poi pensò che non fosse così strano che Elvira avesse ritrovato anche altri amici, oltre lei, quindi si limitò a dire che avrebbe avuto piacere se Elvira l’avesse richiamata al ritorno. La verità era che voleva dire all’amica che aveva letto il diario e quindi voleva anche restituirglielo. Ma Elvira non chiamò più e quando Dolores riprovò a cercarla, alcuni giorni dopo, le dissero che era ripartita!

“Ripartita?” rispose Dolores, preoccupata “E dov’è, ora?”

“E’… stata richiamata al lavoro” disse Loredana, con voce esitante, perché evidentemente sospettava che Elvira si fosse confidata con la vecchia amica, poi, visto che Dolores non aveva risposto nulla, aggiunse, con voce più convinta, “non ha avuto il tempo di salutarti, credo che abbia provato a chiamarti, ma non ha risposto nessuno, vedrai che si farà viva appena possibile”.

“Va bene”, rispose Dolores, cercando di non far trapelare l’ansia che le metteva addosso quella strana notizia, “saluta tua madre da parte mia”.


 

CAPITOLO SESTO

CORRISPONDENZA

 

Qualche settimana dopo, un mercoledì mattina, Alfonso uscì a comprare il latte e tornò anche con la posta che aveva appena preso nella cassetta. C’era una lettera per Dolores e il mittente era Elvira.

 

Cara Dolores,

Sono certa che hai letto il mio diario, quindi avrai sicuramente capito che la persona che avevano deciso di internare ero io. Mi sembra di ricordare che io stessa lo scoprii proprio quel giorno, perché mentre stavo ancora scrivendo il diario pensai di farmi una doccia, vestirmi per bene e andare a comprare un gelato al bar, dove forse avrei potuto incontrare Marcello e provare a convincerlo che niente era cambiato tra  noi. Allora entrai in bagno e mi svestii, poi mi sembrò di sentire la sua voce che mi chiamava dalla traversa che era sotto la mia camera, proprio come aveva fatto in quella famosa domenica, quindi uscii di corsa dal bagno e volai fuori al balcone, inseguita da mia madre e mia sorella che cercavano invano di fermarmi. Così mi affacciai e guardai giù, ma non c’era nessuno. Un attimo dopo entrambe mi raggiunsero e mi tirarono dentro, gridando che se non avessi smesso di fare cose assurde mi avrebbero rinchiusa in un istituto, perché non ce la facevano più a sopportare la vergogna. Solo allora mi accorsi che ero completamente nuda e sconcertata e frastornata com’ero promisi che avrei fatto qualsiasi cosa volessero da me purché mi tenessero in casa con loro. Allora mamma disse che il medico mi aveva prescritto dei farmaci che mi avrebbero fatto riposare meglio la notte e sentire bene anche di giorno. Ovviamente, non chiedevo di meglio e promisi che mi sarei attenuta scrupolosamente alle prescrizioni. Quella sera stessa presi un paio di pillole, credo, poi dormii tutta la notte e anche buona parte del giorno seguente. Nei primi giorni dormivo troppo, ma poi cominciai a svegliarmi regolarmente al mattino e dopo qualche settimana, su consiglio del medico, tornai anche a scuola. Dopo di allora, a volte mi capitava di trovare i miei oggetti spostati, ma mi guardavo bene dal dirlo, perché sapevo che non mi avrebbero creduto. Ricordo anche che una sera, dopo cena, mamma mi aveva chiesto di pulire i fornelli della cucina e li avevo strofinati così bene da farli risplendere come nuovi, ma la mattina dopo mamma si mise a gridare che non li avevo puliti per niente. Andai in cucina ed erano davvero di nuovo tutti sporchi. Chi mi aveva fatto quello scherzo crudele? Per evitare discussioni, mi rassegnai a pulirli di nuovo, ma questa volta non vennero splendenti come la sera prima; restarono opachi e graffiati. Eppure mi sembrava di avere usato lo stesso detersivo! Per il resto, non mi sentivo tanto male, però quando studiavo non riuscivo a concentrarmi e i miei voti continuavano a peggiorare. Alla fine, come tutti in famiglia ci aspettavamo, fui respinta, ma i miei dissero ad amici e conoscenti che ero stata promossa. Nell’estate successiva mi mandarono al paese da una zia che viveva da sola e non ricordo di aver fatto altro che prendere le pillole e dormire.

Quando tornai a Napoli ripresi la scuola, ma di quell’anno non ricordo quasi nulla, tranne il fatto che alla fine fui bocciata di nuovo e di nuovo raccontammo a tutti che ero stata promossa. Però una signora impicciona che abitava nel palazzo andò a vedere i quadri e disse la verità a tutti quelli che conosceva. Anche nell’estate successiva andai dalla zia al paese, ma mentre ero lì smisi di nascosto di prendere le pillole perché avevo sentito alla radio che gli psicofarmaci facevano ingrassare … Una notte mi svegliai sentendo i ladri al piano di sotto e corsi in cucina a prendere un grosso coltello per la carne, poi restai immobile in cima alle scale, ma non c’era più nessun rumore. In quel momento mia zia si alzò e mi vide col coltello in mano. Allora se lo fece dare e mi promise che sarebbe andata lei a vedere al piano di sotto, e così fece, ma non trovò nessuno. Il giorno dopo arrivarono mio padre e mia madre e mi riportarono a casa. Però dopo qualche giorno decisero che dovevo andare a curarmi per un po’ in quella clinica in Toscana e quella volta non riuscii a convincerli che non ce n’era bisogno.

Lì era peggio di un carcere, c’erano tante persone strane che gridavano di giorno e di notte. All’inizio non mangiavo più, piangevo e supplicavo tutti di farmi tornare a casa, ma nessuno mi ascoltava. Poi, dopo non so più quanto tempo, un giovane psichiatra volontario, credo, cominciò a parlare con me regolarmente una volta a settimana. All’inizio mi era antipatico e anch’io ero convinta di essergli odiosa, allora perché continuava a cercarmi? Se era anche volontario, come dicevano tutti, avrebbe potuto scegliere un’altra persona da inserire nel gruppo dei suoi protetti, da visitare regolarmente. Invece scelse me, o forse gli fui imposta dai capi, non lo so. Spesso litigavamo, e ci lasciavamo arrabbiatissimi. Beh, almeno io lo ero e pensavo che lo fosse anche lui. Però un giorno mi disse che, se lo volevo, secondo lui, presto avrei potuto trasferirmi in un altro padiglione, dove alcuni volontari, credo, tenevano corsi di italiano, informatica, disegno, lingue, cucina e ginnastica. Lì si poteva scegliere liberamente di partecipare o meno, ma la cosa incredibile era che per alcune ore, al mattino, gli abitanti di quell’ala dell’edificio sarebbero stati liberi di uscire per il paese! Da allora cominciai a considerarlo il mio più caro amico e mi ripromisi che non lo avrei deluso per avermi accordato la sua fiducia. Dopo mi sembrò che fossimo davvero diventati amici, perché non solo io gli raccontavo tutto di me, dai sogni della notte a quello che avevo fatto durante il giorno, ma anche lui mi parlava liberamente di sé e della sua famiglia! Inutile dire che presto mi innamorai profondamente di lui, anche più profondamente di quanto avessi mai amato Marcello, ma mi guardai bene dal dirglielo, anche se sono sicura che lui se ne era accorto. Sapevo che il mio amore era senza speranza, perché lui era sposato e aveva anche tre bambini, poi ero certa che uno psichiatra e una matta non avrebbero mai formato una coppia. Così mi limitavo ad amarlo in silenzio e senza speranza. Però per amore cominciai a curare un po’ il mio aspetto: almeno, a lavarmi più spesso, intendo, e a pettinarmi i capelli. Poi chiesi a mia madre di mandarmi qualche abito decente da casa, perché i miei erano macchiati e strappati, e cominciai ad uscire al mattino. Le prime volte restavo fuori solo per pochi minuti, perché avevo paura di quell’ambiente nuovo e sconosciuto, poi mi sembrava che la gente del paese mi guardasse con una strana curiosità malevola, evidentemente sapevano da dove venivo. Poi, piano, piano, cominciai a non farci più caso e a godermi le mie passeggiate, sempre più lunghe. Quando ero dentro, provai a frequentare un po’ tutti i corsi. All’inizio lo facevo solo per farmi apprezzare dal mio amico, ma poi mi accorsi che mi interessavano davvero. Dopo essere stata una pessima studentessa, lì mi sentivo, per la prima volta in vita mia, la prima della classe, o quasi. Dopo alcuni anni, mi domandarono se fossi interessata a trasferirmi, con quattro o cinque compagne di sventura, più un’assistente e una volontaria, in una casa che si trovava in un normale condominio nella città vicina, che distava circa dieci chilometri. Dissi che volevo pensarci un po’. In realtà ero entusiasta dell’offerta, ma temevo di non rivedere più il mio amico. Così gliene parlai e mi disse che lui abitava proprio in quella città e aveva lo studio esattamente nel palazzo di fronte alla casa dove sarei andata ad abitare e che nella casa ci sarebbe stato anche un computer collegato ad internet, quindi avrei potuto mandargli delle e-mail tutte le volte che avessi avuto bisogno di lui e lui mi avrebbe risposto, magari non subito, ma appena avesse avuto un po’ di tempo. Poi, in caso di emergenza, avrei potuto anche telefonare e chiedergli un appuntamento allo studio e lui avrebbe fatto di tutto per dedicarmi almeno un po’ di tempo. Intanto i miei genitori si erano adoperati per farmi avere una piccola pensione di invalidità, quindi, pensavo, avrei anche potuto permettermi di pagarlo, magari una volta al mese. Per la prima volta, avevo perfino un po’ di soldi in banca, perché mio padre era morto da poco e nel momento in cui avessi accettato di trasferirmi in quella casa sarei anche entrata in possesso dell’eredità. Così cominciai una nuova vita. Devo dire che non appena i medici diedero il nulla osta perché rientrassi in famiglia mamma si offrì di venirmi a prendere e riportarmi a Napoli, ma rifiutai, perché mi ero affezionata alle persone con le quali avevo trascorso tutti quegli anni di sofferenza.

Ora sono di nuovo in Toscana, per qualche giorno, per fare accertamenti e controllare la terapia. Avrei potuto farlo a Napoli, ma ho scelto di tornare qui, dove conosco tutti, invece di cominciare a frequentare il centro di igiene mentale di Napoli, perché mi faceva paura l’idea di dover ricominciare tutto daccapo con degli sconosciuti.

Ti ho mandato questa lettera per posta, invece che per e-mail, perché dove abito ora c’è un computer e una stampante, ma non c’è il collegamento ad internet.

Non so se tornerò presto a Napoli, perché mi hanno proposto di lavorare per le altre persone che hanno sofferto come me e forse accetterò, però tornerò di tanto in tanto, nei periodi festivi, e mi farà sempre piacere di rivederti. Spero che mia sorella la smetta di dire che sono in America, perché poi quando torno le persone mi fanno tante domande e non so mai cosa dovrei rispondere!”

 

Dolores aveva letto e riletto quella lettera. All’inizio il suo sguardo era triste e assorto, mentre ripensava a quanto doveva essere stata dura la vita per quella ragazzina ammalata. Ma poi si era rasserenata e gli occhi le sorridevano quando si avvicinò al suo computer e scrisse, tutto d’un fiato:

 

“Carissima Elvira,

sono felice che tu stia bene, e quando dico bene, intendo proprio bene, bene, bene! Non lo so cosa ti sia accaduto a sedici anni, né perché tu possa avere avuto tutte quelle strane allucinazioni di cui parli nel diario, ma dalla tua lettera, che ho appena ricevuto, posso capire che ora non hai assolutamente nulla. Devi solo convincerti che sei una persona perfettamente normale e che puoi fare tutto quello che vuoi. Se non fossi abbastanza  sicura che negli anni sessanta a Napoli la droga non esisteva ancora, e che d’altra parte tu frequentavi le stesse persone che conoscevo anch’io e che, oserei dire, erano a prova di bomba, penserei che ti avessero fatto prendere qualche allucinogeno e magari della cocaina, che avrebbe potuto impedirti di dormire la notte. Ti ricordi, per caso, se avevi consultato qualche strano medico, o sedicente tale, che ti avesse indotta a prendere delle pillole per dimagrire? Onestamente, non so se a quell’epoca si usassero già le famigerate anfetamine, o qualcosa di simile. In quegli anni credo che siano uscite le benzodiazepine. So che su questo tipo di farmaci ora le opinioni degli “addetti ai lavori” sono molto contrastanti, anche se alle dosi giuste non sono considerati tanto pericolosi dalla maggior parte degli specialisti. Però tu allora eri giovanissima, quindi forse avrebbero potuto arrecarti danno, se le avessi prese per sbaglio. Magari le avevano prescritte a tuo padre, che aveva appena avuto un ictus, o a tuo nonno. Non riesco a immaginare quali farmaci si dessero a quell’epoca alle persone ammalate di Alzheimer. E’ possibile che tu abbia preso per errore degli psicofarmaci, credendo che fossero per l’influenza, o per la tosse? Se così fosse, non me la sentirei di escludere che su una ragazza molto giovane potessero avere avuto un effetto imprevedibile, specialmente se anche le dosi e le modalità di assunzione fossero state totalmente sbagliate. Mi sembra di ricordare che tu soffrivi di asma. Immagino che se avessi preso per mesi degli psicofarmaci scambiandoli per le tue pillole di antistaminico e poi avessi smesso all’improvviso, allora potresti avere avuto qualche effetto “rebound”. 

Forse, più di me, il tuo amico psichiatra sarebbe adatto a darti qualche spiegazione plausibile, anche perché, da quello che mi scrivi, immagino ti abbia vista per molti anni.

Il tuo diario è al sicuro nella mia cassaforte, insieme con i miei gioielli, però potrei mandartelo, se credi, così che tu possa farlo leggere anche a lui. Di una cosa sono certa ed è che se mai tu sia stata ammalata ora non lo sei più. In verità, lo avevo già capito fin dal primo giorno in cui ci fermammo a chiacchierare sulla panchina in piazza e ne ebbi conferma quando venisti a pranzo a casa. Ma suppongo di non essere la prima a dirtelo; sono certa che tutto lo staff medico che ti segue ti abbia ampiamente rassicurata al riguardo.

Fammi sapere se ti devo spedire il diario.

Con affetto,

Dolores”.

 

Pochi giorni dopo, Dolores trovò nella posta la risposta della sua amica, ma il tono di questa lettera era più mesto rispetto a quello della precedente:

 

Cara Dolores,

Non ricordavo di non avertelo detto: il mio amico non c’è più da tanto tempo. Morì dieci anni fa, all’improvviso, per un infarto. Beh, in realtà la morte non fu proprio improvvisa, perché io lo vidi, una volta, nel suo studio, dopo l’infarto. Poi la settimana successiva non venne all’appuntamento, così provai a chiamarlo sul cellulare, ma non rispose, poi, qualche ora dopo, mi richiamò e mi disse che si era sentito male ed era stato ricoverato di nuovo in ospedale, dove avrebbe dovuto restare ancora per qualche settimana. Avrei tanto voluto andare a trovarlo, ma me ne mancò il coraggio, anche perché ero convinta che non me lo avrebbero permesso. Lo chiamai ancora, di tanto in tanto, per sapere come stava, e un bel giorno mi diede di nuovo appuntamento nel suo studio per il mercoledì successivo.

In quella settimana feci uno strano sogno, in cui mi sembrava di aver partorito un bambino, però lui non stava bene, era troppo piccolo e magro, tremava di freddo e quasi non respirava. Allora lo avevo tenuto al caldo sulla mia pancia e lo avevo accarezzato e massaggiato a lungo, finché non aveva ripreso colore, e calore, e si era riaddormentato sul mio petto, respirando regolarmente.

Quando glielo raccontai, lui non disse nulla, ma non mi sembrò tanto contento: aveva capito che dopo essermi sentita per tanto tempo un po’ come una sua figlia, un po’ come la sua sorellina minore, per la prima volta ero io a sentirmi materna nei suoi confronti e a volerlo in qualche modo proteggere e evidentemente aveva qualche difficoltà ad accettare  quel nuovo ruolo .

Quando ci salutammo, lui chiuse lo studio a chiave, così mi resi conto che ci era andato solo per me, perché non c’era stato nessun altro paziente prima e non ce ne sarebbe stato nessun altro dopo.

Quella notte feci un altro strano sogno, in cui ero uscita per la strada con il mio grosso gatto grigio (non ne ho mai avuto uno, ma nel sogno ce l’avevo) e mi ero dimenticata di riportarlo a casa con me tornando. Poi ero uscita di nuovo e lo avevo cercato invano dappertutto e alla fine qualcuno mi aveva detto che quando i gatti spariscono è perché sono morti.

Non ho mai avuto l’occasione di raccontargli quel sogno perché non l’ho rivisto più. Il mercoledì successivo lo chiamai al telefono per domandargli conferma del nostro appuntamento, ma lui mi rispose:

“Credevo che mia moglie ti avesse avvertita: io sono di nuovo in ospedale”.

“Mi chiamerai tu quando riprenderai a fare studio, vero”?

“Sì, ti chiamerò io”. Ma la sua voce non sembrava per niente convinta, allora insistetti:

“Ma ora come stai”?

“Sto … mi … glio … rando”. Questa volta la sua voce era soffocata, non so se dal pianto o da una strana risata ironica. Due giorni dopo, in preda all’ansia, riprovai a chiamare, ma non rispose. Provai ancora, ma il cellulare era sempre spento. Mi ricordai che una psicologa del nostro staff lo conosceva bene, quindi la chiamai per chiederle notizie. Mi disse che lui stava molto male e che neanche i suoi familiari rispondevano più al telefono.  Le dissi che in passato avevo conosciuto una delle sue sorelle, che insegnava italiano, come volontaria, nel nostro istituto e che avrei provato a cercare il suo numero sull’elenco telefonico. Ma la psicologa mi rispose che avrei fatto meglio a non disturbare i familiari “in quei momenti”. Il giorno dopo sentivo terribilmente la sua mancanza e pensai che forse avrei potuto collegarmi ad internet, dove ricordavo che aveva una rubrica in cui dava consigli tramite e-mail. Lì avrei potuto leggere le sue parole e fingere di averlo vicino per un po’. Io non avevo mai usato quell’indirizzo e-mail prima di allora, perché mi aveva dato quello suo, privato, quindi digitai il suo nome e cognome e la città, e fu così che trovai, per prima cosa, il trafiletto di un giornale locale, in cui si diceva che era morto e che il funerale era stato fatto il giorno prima, di mattina. Quindi la sera prima la psicologa sapeva già tutto, ma aveva ritenuto che fosse meglio per me abituarmi piano, piano all’idea di perderlo. Inutile dire che dopo caddi in uno stato di prostrazione profonda, che durò molti mesi, forse anni, e che ritardò notevolmente il mio ritorno alla normalità. A dire il vero, a volte mi sembra che quest’ultima, tremenda, delusione non l’ho mai superata del tutto e che la mia vita abbia avuto uno scopo solo in quel paio d’anni in cui lui aveva lo studio di fronte a casa mia …

 

Dolores non riuscì a leggere oltre, perché gli occhi le si riempirono di lacrime, ripensando, ancora una volta, al primo amore della sua vita, quel ragazzone forte, dolce e sensibile, che le era sembrato straordinariamente bello perfino da morto, quando lo guardava, sbigottita, in quella stanza gremita di gente venuta da chissà dove, e le sembrava che si fosse addormentato sorridendo, come sempre, però tutti intorno piangevano, disperatamente …

Poi si riprese, con uno sforzo, finì di leggere la lettera dell’amica e di getto le rispose, confidandole, a sua volta, le proprie sofferenze, delle quali, per tanti anni, non aveva praticamente mai fatto parola a nessuno. Ma forse, pensava, cinquantacinque anni sono un’età giusta per fare dei bilanci sulla propria vita ... Forse stava un po’ cadendo in depressione, avendo da poco superato la menopausa, perché ora sentiva di non avere più una vita davanti e quindi da un po’ aveva cominciato a rifugiarsi nel passato, come spesso fanno le persone anziane ... Di sicuro, in tutto questo, non le aveva giovato l’essere figlia unica, né l’aver visto morire, nel giro di pochi anni, prima il padre, poi la madre. Erano anziani, è vero, l’uno era morto a ottantaquattro anni, l’altra a ottantasette, però evidentemente, come molti figli, non era ancora pronta a perderli.

In quel momento sentì il bisogno di andare a riprendere, da un cassetto della camera da letto, il diario di sua madre, che sorprendentemente aveva trovato, nel suo comodino, pochi giorni dopo la sua morte. Allora lo aveva letto e aveva scoperto, per la prima volta, che quella vecchietta magra, pallida e introversa, moralmente molto severa e piuttosto avara di coccole, in pratica aveva vissuto solo per lei e per i suoi figli. Poi non lo aveva mai più aperto, perché ogni volta che ripensava a sua madre non poteva fare a meno di sentirsi in colpa per averle dato ascolto ed averla riportata a casa dall’ospedale, forse, troppo presto, dopo l’intervento di protesi dell’anca. Così, mentre sembrava che tutto stesse andando per il meglio, una mattina, dopo una notte insolitamente tranquilla, in cui aveva dormito sodo anche lei, senza essere stata chiamata neanche una volta, l’aveva trovata immobile e gelata nel suo letto, nonostante fosse il nove di agosto!

 


Cominciò a leggere, un po’ a caso:

 

01/01/1996

“Oggi verrà mia figlia ..., spero di sentirmi un po’ più sollevata! ...

 

02/01

… E’ stato terribilmente faticoso occuparmi delle faccende, ma poi è venuta la mia nipotina, Francesca, e per un po’ mi sono dimenticata di tutto ...

 

04/01

… E’ una giornata molto fredda, ma c’è il sole ... Poi è venuta mia figlia e ha portato con sé una ventata gioiosa! ...

 

05/01

… Questa notte verrà la befana ed io le assomiglio tanto! ...

… Stasera è venuta mia figlia, con la mia bella nipotina, Francesca. Si sono trattenute poco perché dovevano fare delle spese, ma la loro presenza è stata come un raggio di sole, in questa casa triste e solitaria! ...

 

28/01

… Stasera è venuto mio nipote, Antonio,… gli voglio un gran bene. ...

… sono preoccupata per Miriam, che ha la febbre alta …

… ora tutti e tre sono molto impegnati, Antonio e Miriam frequentano l’università e Francesca il liceo artistico . Come sono cresciuti in fretta! Quando erano piccoli, e abitavano al piano di sotto, usavano uno sgabello per bussare alla mia porta! ...

 

11/4/ 98

… mio marito ci lasciò per sempre lo scorso febbraio, ora Miriam abita qui con me … le voglio un bene dell’anima, senza di lei non sarei sopravvissuta! ...

 

A quel punto suonò insistente il telefono, così Dolores ripose in fretta il diario nel cassetto e si affrettò a rispondere.


CAPITOLO SETTIMO

SOLIDARIETA’ E AMICIZIA

 

At telefono, Dolores aveva parlato con sua figlia, che le aveva chiesto se voleva scrivere dei racconti sul tema dell’amicizia nei confronti di persone in condizioni di svantaggio, perché stava preparando un concorso a scopo benefico.

Aveva risposto che ci avrebbe pensato, ma in realtà l’idea non l’entusiasmava tanto, perché ricordava che l’anno precedente aveva partecipato con due racconti allo stesso concorso, che quella volta era sulla solidarietà, e non aveva riscosso molto successo da parte della giuria, che ora praticamente sarebbe stata la stessa.

Intanto che ci pensava, quasi meccanicamente era andata a riprendere la copia dei racconti dell’anno precedente, che conservava nello stesso cassetto, insieme col diario di sua madre, e aveva provato a rileggerli, dopo un anno, come per vedere se le piacevano ancora o se veramente, passato il primo entusiasmo, non sembravano più così interessanti neanche a lei stessa. In fondo erano stati il suo primo tentativo di scrivere qualcosa, dopo i temi del liceo!

Il primo era intitolato “La nomade” e forse quel titolo era già di per sé una condanna all’insuccesso, perché ogni tentativo di far riconciliare la società con i nomadi che ospita, malvolentieri, sembra essere sempre destinato a fallire, oggi più di ieri!

In quel racconto, Dolores aveva parlato, in terza persona, e con qualche piccola modifica, di un episodio che le era accaduto davvero, tempo prima:

 

Era una bella mattina d’autunno, il cielo era azzurro e faceva ancora caldo. Come ogni giorno, Alberto e Miriana, due anziani coniugi, pensionati da pochi mesi, avevano fatto la loro breve passeggiata a Lungomare. Poi erano tornati al parcheggio, a riprendere la loro vecchia macchina sportiva, che era stata rossa fiammante, ma adesso era un po’ graffiata di qua e di là, un po’ come loro, che avevano avuto rispettivamente la barba nera e i capelli d’oro, ma ora l’una era bianca e gli altri erano di uno strano colore rossiccio. Anche molte altre cose erano cambiate: Alberto era stato piuttosto alto e snello, ma ora sembrava quasi piccolo di statura, da quando il mal di schiena lo costringeva a camminare un po’ chino. Miriana in tutti quegli anni aveva visto quasi raddoppiare il suo peso. Si avviarono dunque stancamente verso la loro macchina e intanto guardavano, senza porvi molta attenzione, una giovane donna nomade, seduta a terra accanto alla cassa automatica dove avrebbero dovuto pagare il biglietto. Intorno a lei saltellava un grazioso bimbetto di due o tre anni e al suo seno succhiava una neonata semiaddormentata. Aveva gli occhi socchiusi e il visino pacifico come quello che a volte hanno i cuccioli di gatto quando sono sazi e contenti.

La ragazza non chiese esplicitamente del danaro, ma si limitò a salutare i due coniugi, col suo accento straniero. Miriana rispose al saluto e le sorrise. Alberto non ritenne fosse il caso di rispondere a sua volta, però insieme con l’euro per il parcheggio tirò fuori dalla tasca alcune monetine da pochi centesimi e gliele porse. Se era rimasta delusa, la ragazza non lo diede a vedere, perché ringraziò con un sorriso. Allora Miriana aprì la borsa, prese una moneta da due euro e gliela diede. Dalla faccia di Alberto capì che poi in macchina avrebbe dovuto ascoltare un lungo discorso sul fatto che loro due non potevano permettersi di sprecare il danaro perché non avevano più gli stipendi di prima e le loro pensioni ora bastavano appena per i bisogni della famiglia.

Ma per Miriana era quasi impossibile passare davanti ad un mendicante e non porgergli qualcosa. In verità, non era sempre stato così, anzi, in passato si adirava con la madre, che le chiedeva sempre aiuto per pagare le bollette, però quando usciva di casa si riempiva le tasche di banconote da mille lire da distribuire ai poveri per la strada. Però poi la mamma era morta e lei aveva finito col ritenersi in obbligo di “raccoglierne il testimone”. 

Intanto la fila alla barriera si era diradata ed era il loro turno ad uscire con la macchina dal parcheggio.

In quel momento Alberto vide la giovane nomade che si avvicinava di corsa al suo finestrino, facendogli cenno di fermarsi ed aprire.

“Che altro vorrà ancora da noi?” brontolò, seccato.

“Questi sono suoi, Signore”, disse la ragazza, porgendogli gli occhiali che non si era reso conto di aver lasciato cadere mentre pagava il parcheggio.

“Grazie”, borbottò Alberto, imbarazzato, vergognandosi di se stesso.

La ragazza tornò lentamente al suo posto, seguita dai figli, e ricominciò a salutare tutti i passanti, apparentemente non troppo sconcertata per il fatto che molti non le rispondessero affatto.

Intanto l’automobile procedeva, a scatti, nel traffico bloccato dell’ora di punta e Miriana pensava a quanto l’atteggiamento di quella ragazza nomade, che aveva fatto lo slalom tra le auto del parcheggio affollato, con i suoi due bambini, per restituire un paio di occhiali ad uno sconosciuto, fosse più solidale di quello delle persone, più ricche e più fortunate, che avrebbero dovuto accoglierla, con la sua sfortunata famiglia, nel loro paese”.

 

Il secondo racconto era intitolato VUCUMPRA’ ed aveva avuto un po’ più successo, essendosi classificato tra i primi dieci, però comunque era dedicato ad una categoria di persone che probabilmente non sono tanto simpatiche alla maggior parte di quelli che si seccano (magari non sempre a torto) di essere interrotti continuamente dalle richieste, a volte effettivamente insistenti, delle persone bisognose.

Anche questo era ispirato ad un episodio che era accaduto davvero a Dolores alcuni anni prima e che l’aveva indotta a riflettere un po’ sui propri pregiudizi nei confronti degli immigrati più poveri e meno bene integrati:

 

Carol era una giornalista e scrittrice, anche abbastanza conosciuta. Un giorno le era stato chiesto di scrivere un racconto breve sul volontariato e la solidarietà. A dire il vero, si sentiva un po’ presa in contropiede, perché si vergognava di ammetterlo, ma non si era mai interessata molto a questi argomenti. Ci pensò a lungo, cercando, nella sua mente, il ricordo di qualche volta in cui avesse partecipato ad una buona azione. Ma non le veniva in mente niente, a parte le banalissime partecipazioni alle collette parrocchiali e le elemosine che aveva dato per la strada ai poveri più insistenti, restando spesso col sospetto di averlo fatto, più che altro, per “toglierseli di torno”.

Poi le venne un’idea luminosa: una volta aveva ricevuto solidarietà, da persone che forse sarebbero state bisognose di riceverne.

Era successo tanti anni prima, negli anni ’80. Aveva i tre figli piccoli ed era stata in vacanza a Londra, per quindici giorni, in agosto.

Al ritorno, il suo aereo era atterrato a Roma con parecchie ore di ritardo, per cui l’intera famiglia, con relativi bagagli, si era vista costretta (avendo perso il treno prenotato), a salire, in piena notte, su un treno interregionale sovraffollato. Non solo i posti a sedere erano tutti occupati, ma anche i corridoi e perfino i bagni erano ingombri di enormi valigie, la maggior parte delle quali appartenevano ad un gruppo di extracomunitari che dopo aver lavorato in Italia in estate stavano rientrando nei paesi d’origine.

Molte persone esprimevano apertamente la loro disapprovazione nei confronti degli africani e dei loro bagagli ingombranti. Ma Carol cominciò per caso a parlare con uno di loro e scoprì che al suo paese si era laureato in filosofia, poi aveva deciso di emigrare per trovare un buon posto di lavoro, ma giunto in Italia aveva avuto una sgradita sorpresa riguardo la sua laurea, che purtroppo non era riconosciuta nella maggior parte dei paesi europei, quindi, per poter mantenere la promessa di mandare dei soldi alla sua famiglia in Africa aveva accettato di svolgere lavori servili in Italia per tutta l’estate. Alcuni “vucumprà” si unirono alla conversazione, così Carol e suo marito scoprirono che molti di loro erano decisamente più intelligenti e più colti di quanto il loro misero lavoro in Italia avrebbe potuto far supporre.

Alla fine il treno si fermò a Napoli alle tre di notte e Carol e suo marito rischiarono di non poter scendere, con tutti i loro bagagli, tanta era la folla che ingombrava i corridoi, anche perché il loro vagone, essendo l’ultimo, si era fermato oltre i binari della stazione. Ma alla fine arrivarono sani e salvi sul marciapiede, appena in tempo, prima dell’arrivo di un altro treno in direzione opposta, grazie alla mobilitazione di quel gruppo di giovani stranieri che li avevano aiutati a scendere, con i tre bambini e le cinque valigie”.


CAPITOLO OTTAVO

ANCORA I NOMADI?

 

La sera prima Dolores era andata a letto pensando all’amicizia e quasi inspiegabilmente quella notte aveva sognato la nonna materna, come se fosse ancora viva, e lei bambina, nella vecchia, grande casa al paese, in provincia di Avellino, da cui mancava oramai da tempo immemorabile. Così, appena sveglia, dimentica degli impegni quotidiani (ma per fortuna era ancora presto, quindi forse dopo avrebbe avuto il tempo di rimediare), cominciò a scrivere di getto alcuni dei ricordi della sua infanzia, che in qualche modo erano collegati sia alla cara, lontana, memoria della nonna, sia al tema dell’amicizia:

Da piccola ho avuto poche occasioni di incontrare Nonna Gaia, perché abitava in un paese a trentacinque chilometri dalla mia città e con i mezzi a disposizione negli anni cinquanta era quasi come se abitasse all’estero. Il suo aspetto fisico non era attraente: il suo viso rugoso dimostrava anche più dei settant’anni che suppongo avesse a quell’epoca, i suoi capelli erano radi e di uno strano colore tendente al grigio scuro. Il suo fisico risentiva delle otto gravidanze, peraltro portate felicemente a termine; vestiva solitamente di nero e l’artrite la costringeva a camminare, con difficoltà, sempre in pantofole. Un velo di stanchezza offuscava i suoi occhi azzurri. Però Mamma, che poteva ricordarla venticinquenne, mi parlava di lei quasi come della principessa di una bella favola: Nonna Gaia era nata in una famiglia dell’alta borghesia della provincia di Avellino, aveva studiato in collegio fino a diciotto anni ed era bella, alta, bionda, ben formata, con gli occhi azzurri e con la pelle chiara. Appena tornata nel paese natio, era stata vista da un giovane di un paese vicino, che era quasi un vero principe azzurro: si chiamava Domenico e apparteneva davvero ad una famiglia principesca, anche se ad un ramo cadetto e piuttosto squattrinato.

Domenico si innamorò perdutamente di Gaia, che presto imparò a ricambiarne i sentimenti con pari intensità. Entrambe le famiglie videro di buon occhio quell’unione e i due giovani si sposarono dopo solo sei mesi di fidanzamento.

Gaia andò a vivere nel palazzo del suo principe, che era molto grande e riccamente arredato, anche se non era tutto a sua disposizione, perché era abitato dall’intera famiglia, suocera compresa.

Le terre che Domenico possedeva davano prodotti sufficienti affinché la nuova famiglia, che subito cominciò a crescere, potesse vivere serenamente.

Ma nel millenovecentoquindici la guerra cominciò a rendere tutto molto più difficile e dopo più nulla ritornò mai come prima.

Nonostante le ristrettezze economiche, dovute alla guerra e alle penose carestie che la seguirono, la famiglia, che ogni due anni, puntualmente, si arricchiva di un nuovo membro, poteva ritenersi ancora abbastanza fortunata, perché anche nei momenti più bui (quando a pranzo c’era a stento il primo piatto, o quando il raccolto era appena andato distrutto da calamità naturali, o da razzie di predatori stranieri), nel tranquillo paese di provincia, continuava a godere del buon nome dei suoi membri e del credito necessario a sopravvivere.

Diventate giovani donne, mamma e le sue sorelle cominciarono a frequentare le famiglie più importanti del circondario, alcune delle quali erano anche blasonate, come i Conti C. e i Baroni P., però spesso, in quelle case di lusso, si vergognavano dei loro poveri abiti lisi.

Nonna Gaia, invece, non si vergognava mai e imperturbabile riceveva, nello stesso salotto, e con lo stesso sorriso affettuoso, le baronesse, le mendicanti del paese e le zingare di passaggio. A tutte offriva, con la stessa semplicità, il poco cibo che aveva in casa. Ma i suoi occhi brillavano quando parlava con le nomadi, che erano diventate davvero le sue amiche più care e tornavano a farle visita tutte le volte in cui si trovavano nelle vicinanze. Ogni volta, con rinnovato interesse, si faceva raccontare, per ore, della vita libera e avventurosa che conducevano, in giro per il mondo, e di tutto ciò che di nuovo avevano visto. Nessun’altra famiglia, in paese, le riceveva in casa, anche se molti davano loro ciò che potevano, non perché, come purtroppo accade oggi, ci fosse il timore che fossero ladre, o peggio (di solito, a quei tempi  non lo erano, perché i loro uomini conoscevano dei mestieri che consentivano loro di sopravvivere e che solo negli ultimi decenni sono caduti completamente in disuso), ma più che altro perché, in un mondo che non conosceva ancora gli antibiotici, l’acqua corrente, lo scaldabagno, i detersivi e gli shampoo, le persone abbastanza fortunate da vivere in una casa pulita avevano il fondato timore del contatto con lo sporco, i microbi e i pidocchi. Solo Nonna Gaia sembrava in grado di vedere un essere umano anche dietro un abito strappato e un odore sgradevole.

Cara Nonna Gaia, quando avevo diciassette anni, in una tiepida giornata di maggio del millenovecentosettantuno, partecipai al tuo funerale. Intorno a me non mancava nessuno dei tremila abitanti del tuo paese, dal più ricco al più povero, e quando tutti passammo, a piedi, sotto i grandi alberi che adornavano il viale di fronte alla porta del camposanto, all’improvviso un venticello gentile ne scosse le cime e una pioggia di petali bianchi, dolcemente profumati, ci inondò tutti, come per dirci che la tua anima stava per essere ricevuta nel salotto più bello, dove nessuno ha l’abito strappato, o emana un cattivo odore.

Chissà se qualcuna delle tue amiche ora è lassù con te e prega per il suo povero popolo che, con comportamenti devianti e pericolosi, ha finito col meritare almeno un po’ del disprezzo e della paura che lo circonda. E’ già difficile superare le barriere che ci separano da chi soffre senza colpa, ma ci è quasi impossibile avvicinarci a chi non sembra neanche degno della nostra amicizia!”

 

Allora Dolores aggiunse in fretta il titolo “LE AMICHE DI NONNA GAIA”, spedì il tutto per e-mail alla figlia, poi corse in cucina a preparare il caffè per sé e per Alfonso, che in quel momento si stava svegliando e borbottava, ancora mezzo addormentato:

“E’ tardi, vero, hai fatto il caffè?”


 

CAPITOLO NONO

UN AMICO DAL PASSATO

 

Quel giorno Dolores era uscita prestissimo da scuola, perché i suoi alunni erano tutti in gita scolastica, così aveva deciso, dopo tanto tempo, di andare a fare un po’ di shopping da sola.

In passato lo faceva molto spesso, ma da quando si era allontanata velocemente dalla taglia quarantaquattro prima, poi anche dalla quarantasei e dalle successive, non trovava più quasi mai nulla che le piacesse e le “entrasse” contemporaneamente, quindi si era dovuta accontentare soltanto della seconda delle due possibilità, che comunque non si verificava tanto di frequente.

Mentre guardava mestamente una vetrina piena di abiti graziosi dei quali sarebbe stato inutile chiedere se per caso ci fosse la sua taglia, si sentì chiamare insistentemente.

Non si girò subito, perché il più delle volte, quando sentiva chiamare il suo nome per strada, si trattava di genitori che chiamavano le figlie. Ma questa volta non era così, perché due grossi piedi maschili si affiancarono ai suoi e un signore decisamente alto e robusto, molto ben vestito e dall’aspetto distinto, le appoggiò delicatamente una mano sulla spalla, per attirare la sua attenzione.

Si girò di scatto e riconobbe subito il sorriso simpatico e gli occhi vivaci della persona che le stava di fronte, anche se erano passati quasi quarant’anni dall’ultima volta in cui lo aveva visto. Era Ciro C. e a quel tempo era studente di medicina, e l’aveva anche corteggiata un po’, per un periodo, ma poi si era discretamente allontanato quando aveva saputo che Dolores era già fidanzata, proprio con uno dei suoi amici, il ragazzo bellissimo che era ancora nei ricordi di entrambi.

A parte il sorriso e lo sguardo, il resto del suo viso era notevolmente invecchiato, perché, come Dolores aveva già saputo da un comune amico, Ciro aveva avuto due volte il cancro e la seconda si era salvato per un pelo.

Dopo aver preso la laurea in medicina, si era specializzato in psichiatria ed era stato anche dirigente di una ASL, ma da pochi mesi aveva lasciato la professione perché non riusciva più a conciliare gli orari di lavoro con la chemioterapia.

Le confidò, davanti ad un buon caffè, di sentirsi a disagio, dopo tanti anni di lavoro frenetico, tra la carica pubblica e lo studio privato, ad alzarsi la mattina e non sapere che cosa fare, a parte preparare la colazione per i due figli più giovani e qualche volta dare perfino una mano alla colf polacca a pulire il bagno!

A volte tornava nel suo studio, dove tanti pazienti si erano avvicendati con il loro carico di sofferenze, ed anche tanti colleghi, psichiatri e psicologi, che si rivolgevano a lui per sostegno e confronto (qualche volta anche conforto) con i casi più difficili. Lì aveva ripreso dei vecchi appunti e aveva deciso di riordinarli per scrivere un libro sull’interpretazione dei sogni, ma da solo il più delle volte si annoiava e finiva con l’addormentarsi.

Impulsivamente, Dolores gli offrì di lavorare insieme, perché anche lei conservava molti appunti, di sogni propri e di amici, e più volte aveva pensato di trarne un libro, ma non si era mai decisa a farlo, perché non riteneva, da sola, di avere conoscenze ed esperienze sufficienti. Inoltre, le sarebbe piaciuto di fargli leggere il diario della sua amica, Elvira, per chiedergli quale fosse il suo parere riguardo l’evoluzione della malattia che l’aveva colpita e le speranze che fosse definitivamente guarita.

Così decisero di passare subito da casa di Dolores, a prendere gli appunti, ed andare a lavorare allo studio di Ciro, che era a due passi. Il periodo sarebbe stato insolitamente propizio, perché anche Dolores non aveva proprio nulla da fare, da sola in casa dopo tanti anni di “sovraffollamento”. Infatti Alfonso, all’ultimo anno di insegnamento prima della pensione, aveva deciso di unirsi, con i suoi alunni, ad uno scambio culturale con una scuola inglese e sarebbe rimasto fuori per almeno tre settimane.

Una volta a casa, Dolores evitò di aprire la cassaforte e prendere il diario di Elvira, perché non le sembrava eticamente corretto farlo senza il suo permesso. Quindi raccolse soltanto i propri appunti, riservandosi di parlare della sua amica in seguito, dopo che avesse avuto il tempo di informarla al riguardo.

Allora andarono insieme ad aprire lo studio di Ciro, che a differenza della maggior parte degli studi medici era al quarto piano di un edificio circondato da villette basse in mezzo al verde e quando aprirono le persiane si riempì di luce e di sole.

Per prima cosa lessero insieme un racconto, che Dolores aveva scritto qualche tempo prima, sempre in terza persona, e con nomi di fantasia, ispirandosi ad uno strano sogno che aveva fatto la notte precedente. Era intitolato, appunto, “Il sogno”:

Marika stava facendo gli gnocchi in cucina per il giorno dopo, domenica. Sì, perché era sabato sera, ma a casa sua non succedeva mai niente, il sabato sera, soprattutto non a novembre, né tanto meno mentre pioveva.

Erano le otto e mezza. Alberto era seduto in salotto, davanti alla TV, a sognare ad occhi aperti che un giorno la fortuna bussasse anche alla sua porta, mentre guardava la puntata di “Affari Tuoi”.

Gli gnocchi per il giorno dopo, invece, erano, come sempre, affari “suoi”, di Marika, intendo, che da sola si stava destreggiando tra le patate bollenti, le mani piene di farina, la difficoltà di prendere il coltello per tagliare la pasta senza sporcare tutta la cucina (come era diverso, quando c’erano le due figlie adolescenti: Francesca si offriva sempre di schiacciare le patate, con i suoi muscoli da body builder, ed era anche velocissima a cavare gli gnocchi, a due mani, mentre Miriam li raccoglieva tutti ordinatamente sui vassoi e poi dava sempre una mano a riempire la lavastoviglie e a ripulire la cucina).

Intanto si domandava come aveva fatto a finire lì, a cinquantacinque anni, in quella cucina sporca, con indosso una vecchia vestaglia infarinata, col seno che le arrivava quasi all’altezza dell’ombelico, ma non sarebbe potuto scendere oltre, visto che oramai si reggeva sull’addome lardoso.

Chi l’avrebbe mai detto, a vederla ora, che era stata una delle ragazze più brillanti e popolari del liceo linguistico, quaranta anni prima?

A volte non ci credeva neanche lei, ma poi andava a rivedere le vecchie foto, ed eccola lì, la bella ragazza in minigonna, che credeva che il futuro sarebbe stato una serie di conquiste, non solo  di uomini, ma anche della brillante carriera che gli insegnanti, entusiasti, le avevano più volte fatto sperare di poter conseguire.

In passato, tanti, troppi, anni prima, Marika aveva preso quasi due lauree, la prima in lingue straniere e la seconda in psicologia, ma, attenzione, ho detto quasi due perché la seconda era stata abbandonata ad un passo dalla fine, quando le mancavano solo due esami e perfino la tesi era già pronta.

 

Ciro fece, con discrezione, qualche domanda a Dolores sui suoi genitori, se fossero ancora vivi, ecc. e capì subito come lei, figlia unica, avesse ancora dei sensi di colpa per non essere stata più presente, con loro, prima che morissero.

Inoltre, come venne fuori dopo, continuando la conversazione, stranamente, Dolores sembrava sentirsi in colpa per avere ereditato da loro, quasi avesse usurpato qualcosa che non le spettava. Dunque non era esattamente il comportamento dei figli a farla soffrire, ma il proprio, nei confronti dei genitori, verso i quali, essendo figlia unica, appunto, aveva nutrito evidentemente dei sentimenti molto forti, sia di segno positivo che negativo, e tutto questo non l’aveva aiutata ad affrontare la realtà quando le erano mancati. Anche Ciro, alcuni mesi prima, aveva perso la mamma in circostanze dolorose ed aveva vissuto un’esperienza un po’ simile a quella di Dolores, sia pure per motivi molto diversi, perché lui, essendo medico, era stato molto presente nella vita della madre morente e si era naturalmente adoperato con tutte le proprie forze per farla vivere il più a lungo possibile. Però dopo che lei non c’era più anche lui non aveva potuto fare a meno di domandarsi se era stato egoista a prolungarne l’agonia quando già sapeva che non c’era più nessuna ragionevole speranza di farla stare meglio.

Dopo essersi un po’ consolati a vicenda per i lutti che avevano dovuto affrontare, i due vecchi amici si lasciarono con la promessa di rivedersi il giorno dopo per lavorare insieme al libro che Ciro stava scrivendo, integrandolo con gli appunti di Dolores, che Ciro, dopo una rapida scorsa preliminare, aveva giudicato decisamente interessanti.


 

CAPITOLO DECIMO

L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI

 

Il giorno dopo, ripartirono dal diario dei sogni di Dolores e ne lessero uno relativamente recente:

  

Sabato 14 giugno 2008

Stavo facendo la spesa in un ipermercato con mio marito. Avevo il carrello pieno e mi stavo avviando alla cassa, ma avevo lasciato il carrello a mio marito per andare a prendere un altro pezzo di pane. Ne avevo preso uno bello grosso e stavo tornando alla cassa per pagare quando mi accorsi che in mia assenza mio marito aveva abbandonato il carrello e si era allontanato dalla fila. Così ora le persone non volevano più lasciarci passare perché pensavano che volessimo fare i furbi. Allora mio marito deviò per un’altra ala del fabbricato, che era deserta, perché c’erano lavori in corso. Ma anche lì il passaggio non era agevole perché bisognava superare una serie di barriere che gli operai avevano messo tra le colonne per impedire l’ingresso agli estranei. Lui sembrava cavarsela relativamente bene, in quella situazione che aveva scelto, ma io facevo molta fatica a seguirlo …

 

“Che ne pensi, Ciro, significa davvero quello che credo, cioè che la mia vita con mio marito tende a diventare molto diversa da quella che sceglierei di vivere se fossi un po’ più libera di fare ciò che preferisco?” domandò Dolores alla fine della lettura.

“E’ possibile”, rispose “ma onestamente non lo so, perché non ci siamo più visti per tanti anni e invece dovrei conoscerti un po’ meglio per essere sicuro di capire i meccanismi alla base dei tuoi sogni; magari, continuando a leggere, finiremo per scoprire se ci sono temi ricorrenti. Oppure, se proprio vuoi che ci imbarchiamo insieme in un’avventura nel tuo inconscio, mi dovresti aiutare parlandomi un po’ anche di quello che fai e pensi durante il giorno. Ti va?”.

“Perché no? Ho sempre desiderato di imparare qualcosa in più sulla psicoanalisi e questa che mi offri potrebbe essere una splendida occasione! Abbiamo il tempo di leggere un altro sogno?”

“Io di tempo ne ho anche troppo, ultimamente!”

“Io di solito no, ma ora che mi trovo a stare completamente sola in casa, per la prima volta dopo tanti anni, mi accorgo che la noia, la solitudine e l'inattività possono davvero diventare le cose più brutte da affrontare nella vita”.

 

Quindi passarono a leggere degli altri sogni:

 

Martedì 19 febbraio 2008

Un importante negozio al Corso aveva messo le ultime svendite a prezzi molto convenienti. Ero andata a misurare dei vestiti con le mie figlie e qualche amica ed ero stata sorpresa di trovare molte cose della mia taglia anche fra i modelli per donne giovani. Alcune delle cose che avevo misurato mi stavano sorprendentemente bene, al punto che mi domandavo se in quel negozio non avessero per caso gli specchi che allungavano la persona e poi tornando a casa avrei trovato che sembravo molto più grassa di come mi ero vista lì. Mentre misuravo, avevo visto che una delle mie colleghe indossava un abito che mi piaceva molto e che avrebbe dovuto starmi bene, quindi le avevo chiesto di cercarmene uno uguale della mia taglia, ma lei mi aveva risposto che non capiva bene come fossero indicate le taglie in quel negozio, quindi me ne aveva dato uno, dicendomi di controllare se era più grande o più piccolo del suo. Mentre controllavo, mi ero accorta che la taglia probabilmente sarebbe stata giusta per me, e la fantasia del vestito era proprio quella che cercavo, ma il modello non mi sarebbe andato bene perché era la versione con i pantaloni corti invece che con la gonna al ginocchio, quindi mi ero avvicinata allo stand per cambiarlo e forse avevo trovato quello giusto, anche se le indicazioni relative alla taglia non erano affatto chiare. In uno degli specchi vedevo anche riflesso un uomo giovane e bello, elegantemente vestito, che forse era un commesso, o forse era un mio amico, dunque lo specchio era messo in modo tale che se io vedevo lui, lui probabilmente vedeva me. Perciò mi ero spostata un po’ e lo avevo guardato e forse avevo fatto una battuta perché avevamo sorriso entrambi, però non ero riuscita lo stesso a capire se gli specchi erano truccati o no, perché, a differenza di me, il giovane, nella realtà, era più magro e non più grasso del suo riflesso nello specchio. Comunque avevo messo da parte alcuni abiti, che avevo intenzione di comprare, ed ero andata in un altro piano dello stesso negozio, per guardare altre cose. Poi ero tornata al piano di sopra e avevo trovato che i prezzi erano stati ulteriormente diminuiti. Per un attimo mi ero congratulata con me stessa, per aver aspettato ad andare alle casse, però poi mi ero accorta che non era rimasto quasi nulla, specialmente nella mia taglia. Avevo cercato i vestiti che avevo messo da parte prima, ma le persone dovevano aver comprato anche quelli. Mi domandavo se ero stata imprudente io a lasciarli incustoditi o disoneste le altre donne a fingere di non capire che quei vestiti erano già stati scelti da me; avevo deciso che erano state disoneste le altre perché al posto di uno dei vestiti, che avevo scelto, me ne avevano lasciato un altro che somigliava vagamente al mio, ma era meno bello e di qualità più scadente, quindi avevano voluto ingannarmi di proposito. Pensai che forse avrei potuto andare in qualche altro negozio, a Napoli, che vendesse le stesse cose ma che, non trovandosi al Corso, forse non era stato ancora preso d’assalto, però non ero sicura di riuscire a trovare proprio i modelli che avevo scelto e poi ero molto scoraggiata per l’accaduto, quindi probabilmente avrei lasciato perdere 

Avevo della lana rosa e stavo provando un punto all’uncinetto, che ricordavo, per averlo usato tanto tempo prima, forse per una maglia. Guardando il lavoro che progrediva, pensavo che avrei potuto ricavarne una sciarpa elegante per me, però avrei dovuto lavorare molto a lungo e non ero sicura di volerlo fare. Poi, guardando bene il lavoro, mi ero accorta che non mi piaceva tanto. Infatti evidentemente avevo dimenticato il punto originale e quello che avevo realizzato lo ricordava solo in modo molto approssimativo: mi domandavo se i pieni e i vuoti erano distribuiti a righe, come lo stavo realizzando io, o a scacchi. Poi mi ero ricordata che il punto di tanto tempo prima non realizzava un disegno di righe, ma più simile a dei rami con tante foglioline, quindi avrei dovuto ricominciare tutto daccapo, se avessi voluto tentare di realizzare davvero il punto che ricordavo …

 

“Dolores, tu fai l’insegnante di inglese, vero?”

“Sì …”

“Ti piace il tuo lavoro?”

“A volte sì, a volte no, però se avessi potuto scegliere liberamente, come forse sai, avrei voluto fare la psicologa”.

“E’ vero, lo dicevi sempre al liceo, perché poi cambiasti idea?”

“Perché allora la facoltà di psicologia era solo a Roma e i miei genitori, e anche Alfonso, ce la misero tutta per convincermi a sceglierne una più vicino casa.”

 

Martedì 26 febbraio 2008

Ero alloggiata, con mio marito, nella torre di un grande albergo, di proprietà di un dentista. Ero scontenta del lavoro che quel dentista aveva fatto per me. Nell’albergo era alloggiata anche una ragazza che aveva il mio stesso problema. Un giorno lei decise che la notte successiva avrebbe dato fuoco all’albergo, per dispetto, e me lo disse. Io probabilmente non diedi grande importanza alle sue parole, perché andai a dormire in camicia da notte, come sempre. Poi, durante la notte, mi accorsi che la mia stanza era in fiamme in più punti. Allora dissi a mio marito che dovevamo scappare, ma lui non si muoveva e tentava invece di spegnere le fiamme. Io sapevo che il fuoco veniva da fuori e quindi se non ci fossimo sbrigati presto avremmo trovato bloccate tutte le vie di fuga. Infine convinsi mio marito e scappammo insieme nella notte fredda indossando solo la nostra biancheria da notte. Lungo la strada, vidi che tutte le altre persone, che stavano scappando, erano vestite di tutto punto, come se fossero state a conoscenza di ciò che sarebbe accaduto e stessero aspettando solo di andare via. Davanti a noi, in particolare, notai una signora un po’ grassa, con i capelli ricci, di colore castano chiaro, che aveva trovato il tempo di mettere i collant e le scarpe nere con un po’ di tacco, prima di fuggire col marito e uno o due bambini …

Era il giorno del mio compleanno e piangevo singhiozzando stesa su un letto. Dietro i vetri di una finestra del primo piano, mia madre mi guardava e piangeva anche lei: forse era addolorata per me, ma quando scese giù mi disse qualcosa con un tono di voce normale, come se non volesse parlare di ciò che ci tormentava. Poi mi chiese di comprarle un nuovo cellulare, perché quello che le avevamo comprato aveva preso fuoco una volta e temeva che potesse accadere di nuovo. Avevo chiesto a Francesca di fare a cambio di cellulare con la nonna, perché non credevo che quello fosse realmente pericoloso, dato che Alfonso ne aveva uno uguale ed era sempre andato bene. L’idea era di dare alla nonna il vecchio cellulare di Francesca, che era molto più grande e quindi più facile per lei da usare. A lei avremmo detto di averlo comprato nuovo, così avremmo risparmiato dei soldi. Però temevo che mamma se ne sarebbe accorta che il cellulare era vecchio, perché la batteria si scaricava troppo spesso. Comunque speravo che lei non ne facesse uso frequente e quindi le durasse un po’ di più. Ma dopo un po’ ricominciai a sentirmi in colpa, per aver dato a Francesca il cellulare difettoso e non potevo fare a meno di pensare che se non lo avessi considerato pericoloso lo avrei tenuto per me invece di rifilarlo a lei.

 

“Com’è il tuo rapporto con Francesca?” domandò allora Ciro “A volte, dai tuoi sogni, soprattutto da quelli un po’ meno recenti, che sono nell’altro quaderno, quello che lasciasti ieri allo studio, ho avuto la sensazione che le tue figlie, nei tuoi sogni, stiano per parti di te. Anche tua madre, e perfino tuo marito, a volte, nei tuoi sogni, sembrano essere parti di te, un po’ in conflitto tra loro.”

“E’ vero, sai, qualche volta lo avevo pensato anch’io!” rispose perplessa Dolores.

 

Poi continuarono a leggere:

Mercoledì 27 febbraio 2008

Ero in una grande palestra a fare ginnastica. Ci avevano fatte disporre su due file e dovevamo muoverci da sinistra a destra e viceversa. Però ero l’ultima vicino al muro, quindi avevo pensato che una volta raggiunto il muro dovessi muovermi nel verso opposto. Invece l’istruttrice mi aveva detto di no, che dovevo fermarmi dopo pochissimi passi, e questo non mi aveva fatto piacere. Poi le due file dovevano incrociarsi, formando una coreografia. Mi stavo divertendo, però ero urtata col piede scalzo contro l’unghia dell’alluce di un’altra ragazza ed ora avevo un taglio sotto la pianta del piede su cui si era formata un’enorme bolla. Avevo pensato che non potevo restare così a rischiare un’infezione e dovevo invece andare dal dott. Antonucci a farmi disinfettare. La mia amica Rossana, che sospettava di essere stata lei ad urtarmi, si era offerta di accompagnarmi dal medico e poi a casa. Le avevo detto che se voleva aiutarmi avrebbe dovuto fermarsi anche per la notte, perché mia madre era via da Napoli per qualche giorno ed io non ero in grado di occuparmi di mio padre da sola. Lei aveva accettato, però dovevamo andare prima insieme a casa sua a chiedere il permesso a suo padre. Quando arrivammo, suo padre era seduto a tavola e nella stanza c’era un po’ di confusione, infatti il professore Amendola sembrava non sentire la mia voce sottile e timida. Ma poi aveva capito e aveva detto di sì e ci eravamo avviate. Allora Rossana mi aveva chiesto di invitare un po’ di amici a casa quella sera. Le avevo risposto di non invitarne più di cinque o sei, o al massimo dieci, perché la mia stanza non era tanto grande e mio padre non avrebbe gradito di avere la casa invasa di ragazzi rumorosi. Anzi, bisognava dire a quei dieci di arrivare tutti insieme, e di entrare in punta di piedi, così avremmo fatto credere a mio padre che non erano più di due o tre. A quel punto Rossana mi confessò che ne aveva già invitati 700 ed io la obbligai a fare un messaggio cumulativo dal suo cellulare per avvertirli che la festa era stata cancellata. Rossana era molto seccata però obbedì. Poi andò a comprare del prosciutto e della mozzarella per la cena di papà. La mattina dopo mia madre ritornò con un giorno di anticipo e mi sgridò per avere invitato l’amica a casa. Cercai di spiegarle l’accaduto, ma lei sembrava non capire e invece mi portò in giardino a vedere dei grossi vassoi rotondi con tanti buchini, come se fossero setacci, o scolapasta, e sembrava che li considerasse la prova di una mia grave colpa che io però sapevo di non aver commesso. I vassoi erano stati nascosti nelle aiuole e coperti uno ad uno con dei canovacci. L’unica spiegazione che potevo darle era che probabilmente Rossana li aveva portati senza dirmelo la sera prima per usarli alla festa, ma mia madre sembrava ancora incredula e seccata con me. Allora mi portò a vederne ancora un altro, molto simile ai precedenti, ma di forma ovale e con i bordi schiacciati, come se nel tempo avesse subito dei danni. Anche quello doveva essere stato portato la sera prima da Rossana con lo stesso scopo degli altri e non riuscivo a capire che significato speciale mia madre attribuisse al fatto che era danneggiato, forse era semplicemente vecchio …

 

Lessero ancora molti altri sogni.

“Decisamente interessanti, i tuoi sogni.” commentò Ciro, “E interessante trovo anche il modo in cui a volte tu sembri già analizzarli, prima ancora di svegliarti! Ho anche notato che a volte compare un “terzo uomo”, che ti guarda da lontano, ti sorride, ti approva … E’ una nuova conoscenza o è quello che penso io?”

“E’ quello che pensi tu!”

“Sai, forse è giunto il momento di lasciarlo riposare, e di liberarti anche tu da questa catena, che forse ti impedisce di godere pienamente di ciò che hai. Se devo essere sincero, ho la sensazione che tu sia molto affezionata a tuo marito, nonostante le divergenze di carattere e di opinioni, però non ti lasci andare perché ti sembra di fare un torto a chi non c’è più.”

“E’ vero, sai, è da un po’ che ci stavo pensando anch’io, da quando Alfonso è partito per la sua lunga gita scolastica e mi sono accorta che mi manca tanto da mozzarmi il fiato.”

In quel momento si accorsero che si era fatto molto tardi, quindi si salutarono e si separarono, con la promessa di rivedersi al più presto.


CONCLUSIONE

Qualche volta

I SOGNI SI AVVERANO!

 

Tornando da scuola, quel giorno di gennaio del 2012, Dolores aprì la cassetta delle lettere e ne trovò una della sua cara amica Elvira:

Carissima,

non puoi immaginare quanto sono contenta! La tua idea di farmi conoscere il tuo amico George si è rivelata luminosa. Ti ricordi quando a Pasqua di due anni fa mi parlasti di lui e di quanto si sentisse solo, essendo appena andato in pensione, poi mi mandasti il suo indirizzo e-mail perché potessimo cominciare una corrispondenza amichevole, anche perché mi potesse aiutare a capire i libri di inglese che avevo trovato così difficili all’università? In effetti non è stato per niente facile riprovare, alla mia età, ad iscrivermi a lingue, così come avevo sempre desiderato in gioventù (fin da quando avevo ricevuto l’incoraggiamento dei miei insegnanti volontari, mentre ero ancora in quel terribile istituto in Toscana), ma non avevo mai osato fare, anche perché troppo presto mi era mancato il consiglio e l’appoggio del mio amico psichiatra.

George mi rispose subito, in modo molto esauriente e forse mostrandosi perfino un po’ troppo pignolo. Così, appena superai l’esame di inglese, decisi di invitarlo a passare una settimana da me, nella mia piccolissima  casa che avevo appena comprato a Napoli essendo entrata in possesso, come sai, della mia parte dell’eredità di mio padre.

Lui non se lo fece dire due volte e prenotò subito un volo Last Minute per Roma, poi, come gli avevo consigliato, prese un treno per Napoli.

Quello che successe poi te lo racconterò a voce appena possibile.

Ora vorrei solo che mi dicessi se ti va di fare da testimone alle nostre nozze, che avverranno fra due mesi circa, non abbiamo ancora stabilito la data precisa.

Saluti e baci,

Elvira

 

Sorridendo, Dolores prese carta e penna e cominciò a scrivere:

 

 

Carissima Elvira,

Mi dai una notizia meravigliosa.

Sarò felice di fare da testimone alle tue nozze.

Anche per me molte cose sono cambiate in meglio dalle ultime volte in cui ci siamo sentite.

Mi sembra di ricordare che qualche anno fa, prima che tu partissi per l’Inghilterra, ti raccontai al telefono del mio incontro con Ciro e del libro che stavamo scrivendo insieme sull’interpretazione dei sogni. Tu non puoi saperlo, perché sei appena tornata dall’estero, ma noi poi lo pubblicammo, e avemmo un successo strepitoso, e da allora decisi di iscrivermi di nuovo a Psicologia, quindi diedi gli ultimi due esami e presi la laurea.

Ora lavoriamo insieme nel pomeriggio, ma ho già dato le dimissioni dalla scuola, con decorrenza dal primo settembre prossimo, per dedicarmi a tempo pieno al mio nuovo lavoro.

Intanto sto conducendo una vita frenetica, ma ricchissima di soddisfazioni.

Figurati che sono dimagrita di quasi venti chili, e mi sento anche venti anni di meno!

Come avrai potuto capire, devo tutto al mio vecchio amico, che dalla lettura dei miei sogni si è reso conto che la mancata realizzazione nel lavoro pesava molto sul mio senso di insoddisfazione e di frustrazione, e mi portava anche a mangiucchiare dolcetti da mattina a sera.

In realtà lo sapevo anch’io, però avevo bisogno di incoraggiamento per rimettermi in gioco alle soglie dei sessant’anni!

Non vedo l’ora di rivederti.

Baci,

Dolores. 

FINE