PREMESSA
I fatti e i
personaggi che
compaiono in questo romanzo sono tutti inventati ed ogni eventuale
apparente
riferimento a persone, eventi, o luoghi è puramente casuale.
CAPITOLO
PRIMO
RICORDI
D’INFANZIA
“Gaaaaiaaaaaa!”
tuonò, impaziente, un vocione maschile proveniente
dall’altra parte della casa.
“Sì,
Alfonso, che c’è?” rispose dalla cucina
una voce di donna, dolce e sottile, che
sembrava appartenere ad una ragazzina; invece la persona che si
affacciò al
corridoio, dopo aver aperto la porta col gomito, era
un’enorme
cinquantacinquenne, infarinata dalla testa ai piedi, che stava
preparando gli
gnocchi per il giorno dopo, per il pranzo domenicale di tutta la
famiglia.
Il
suo nome completo, per uno scherzo del destino, o dei suoi genitori,
che non
avevano voluto far torto a nessuna delle due nonne, era Gaia Dolores,
senza la
virgola, ma le persone che la conoscevano dall’infanzia la
chiamavano
semplicemente Gaia, anche se negli ultimi anni aveva cominciato a
presentarsi
col nome di Dolores, per una strana forma di scaramanzia. Infatti aveva
notato
che tutti quelli, tra i suoi amici, che avevano un nome beneaugurante
avevano fatto
proprio una brutta fine: il suo amico Fortunato, che aveva abitato al
palazzo
accanto, era morto prematuramente, dopo aver trascorso almeno dieci
anni a
letto per una terribile forma di sclerosi laterale amiotrofica; la sua
collega
Felicia era morta a sessant’anni, per una emorragia interna,
dopo aver subito
vari interventi chirurgici e chemioterapie, per un cancro alla vescica, esattamente pochi giorni
dopo che i medici le
avevano dato la buona notizia di esserne guarita; la sua amica Elena
(il cui
padre raccontava sempre a tutti di aver chiamato così
l’unica figlia perché
voleva che fosse la donna più bella del mondo), a seguito di
lutti e malattie
varie, aveva cominciato a consolarsi mangiando e in pochi anni era
diventata la
donna cannone, altro che la donna più bella del mondo! Senza
contare
Immacolata, la vecchia compagna di liceo, che aveva
“flirtato” (e non solo!)
con tutti i ragazzi della comitiva! Oh, a proposito, la compagna di
banco di
Immacolata si chiamava Fausta, ma tutti quelli che la conoscevano
facevano gli
scongiuri quando l’incontravano perché erano
convinti che portasse male!
“C’è
Loredana B. al telefono, che vuole farti le condoglianze per tua
madre!” urlò
il proprietario del vocione, che non aveva l’aspetto
dell’orco cattivo, ma
quello di un vecchietto magro e un po’curvo, con un bel paio
di occhi azzurri e
tanti capelli ricci ormai tutti bianchi.
“Chiiii?!”
Gaia (o forse dovrei dire “Dolores”, per
assecondare la sua piccola mania) era
convinta di avere udito bene le singole parole, ma non riusciva a
mettere “a
fuoco” il significato della frase, perché non solo
Loredana B. non l’aveva più
chiamata negli ultimi trentacinque anni, ma la madre di Gaia era morta
oltre un
anno prima.
“Vengo”,
aggiunse, affrettandosi lungo il corridoio, mentre cercava di pulire le
mani
nel grembiule.
Una
volta al telefono, passato il primo imbarazzo, la conversazione con la
vecchia
amica d’infanzia diventò molto facile e
scorrevole: Gaia (Dolores?) ricordava
tutto dei bei tempi passati con Loredana, Elvira e Rossana, la
più piccola
delle tre sorelle, che era sua coetanea e quindi la sua vera amica del
cuore.
Chiacchierarono fitto, fitto, per quasi un’ora e si promisero
reciprocamente di
non perdersi più di vista, dal momento che Loredana era
tornata a vivere a
Napoli.
Dopo,
Dolores era di nuovo in cucina, alle prese con la sua montagna di
gnocchi, che
aveva anche un po’ sofferto per essere stata abbandonata
così a lungo sul
tavolo, e ripensava alla conversazione avuta con Loredana. Una cosa, in
particolare, le aveva fatto molto piacere: Elvira, la sorella di
Loredana, stava
benissimo, si era trasferita negli Stati Uniti ed aveva ottenuto un
lavoro
importante come interprete in un consolato italiano in America. Elvira
aveva
solo un paio di anni più di Dolores ed era sempre stata una
ragazza dolce e
gentile, che non disdegnava di passare il proprio tempo con la
sorellina e la
sua amichetta. Dolores, che era figlia unica, aveva vissuto in quella
famiglia
quasi come nella propria, finché un giorno, improvvisamente,
i B. si erano
trasferiti a vivere in Sardegna per motivi di lavoro. Solo Elvira,
purtroppo,
era stata costretta a trasferirsi in Toscana, presso una casa-famiglia,
dopo
essere stata a lungo ricoverata in un centro per la cura delle malattie
mentali. Tutto questo, a Napoli, non lo sapeva nessuno, solo Dolores e
la sua defunta
madre, con la quale la Signora B. si era confidata, qualche volta, al
telefono.
Elvira
aveva solo sedici anni quando aveva cominciato a manifestare seri
disagi, che
le avevano anche impedito di ottenere il diploma superiore. Dolores
ricordava,
dalle ultime notizie che aveva ricevuto, solo un paio di anni prima,
tramite le
rispettive madri, che Elvira era ancora ammalata e viveva sempre in
Toscana.
Così fu davvero piacevolmente sorpresa di come le cose
fossero cambiate,
favorevolmente, in soli due anni. Però non disse niente a
Loredana di avere
sempre saputo delle difficoltà che la sorella aveva vissuto
negli anni
precedenti, perché Loredana non sembrava volerne parlare e
forse ignorava
perfino che Dolores ne fosse al corrente.
Il
giorno dopo Dolores (o Dolly, come alcuni dei suoi amici avevano
cominciato
scherzosamente a chiamarla negli ultimi tempi) andò a fare
la spesa sotto casa
e dopo pochi passi incontrò proprio la sua vecchia amica,
Loredana, che
riconobbe subito, perché non era cambiata quasi per nulla.
Appoggiata al suo
braccio, una donna anziana, obesa, con i capelli brizzolati e
l’aspetto
trascurato, camminava con difficoltà. Dolores
pensò che fosse la vecchia
signora B., che non incontrava da tanti anni, ed in effetti le
somigliava, ma
non era solo molto più grassa, era anche molto
più alta. Alla fine capì, era Elvira
e Loredana sembrava molto imbarazzata per quell’incontro;
anche Dolores lo era,
però entrambe si sforzarono di fingere che tutto fosse
normale. Dopo un po’ si
salutarono, però Elvira non aveva partecipato alla
conversazione e non aveva
dato segno di aver riconosciuto l’amica d’infanzia.
Pensierosa,
Dolores si avviò verso il negozio del fruttivendolo e
comprò un sacco di
verdure, speranzosa di riuscire a mangiarle, invece dei soliti dolci,
per
frenare l’aumento di peso che cominciava ad essere
preoccupante. Sulla via del
ritorno, continuava a pensare ad Elvira: il fatto che fosse grassa e
trascurata
nel vestire non sarebbe bastato, da solo, a farle pensare che
l’amica non fosse
realmente guarita, perché ella stessa era diventata il
doppio, dopo la
menopausa, e poi in America le persone non tengono molto alla linea;
però
l’espressione assente e gli occhi spenti della sua vecchia
amica l’avevano
seriamente preoccupata.
La
giornata invernale era piacevole, l’indomani sarebbe stato il
primo marzo e
l’aria profumava già di primavera, così
Dolores si fermò su una panchina in
piazza, lasciando scivolare a terra le pesanti buste della spesa. In
quel
momento si accorse che di fronte, su un’altra panchina,
sedeva Elvira, da sola,
ancora immersa nei propri pensieri. Poi, all’improvviso,
cominciò a muovere le
labbra, come se stesse parlando sottovoce a qualcuno, ed anche a
gesticolare
con le mani. Dolores provò una pena profonda,
però lo stato un po’ alterato
della sua amica non le faceva impressione, perché in
passato, dopo aver preso
la laurea in lingue, si era iscritta a psicologia e aveva dato anche
parecchi
esami, superati con ottimi voti, poi aveva dovuto rinunziare a
completare quel
corso di studi, che l’aveva molto entusiasmata,
perché glielo avevano impedito
la cura dei figlioletti, che erano arrivati nel frattempo, e il suo
lavoro di
insegnante.
Così
si andò a sedere accanto ad Elvira e le appoggiò
con garbo una mano sul
braccio, mentre le diceva, con voce dolce e carica di simpatia:
“Ti
ricordi di quando ci preparasti le patate fritte?” Elvira si
girò di scatto, la
guardò, per la prima volta, negli occhi e inaspettatamente
scoppiò in una
sonora risata, liberatoria, alla quale Dolores si unì,
ridendo a sua volta, con
tutto il cuore.
Così
incominciarono a parlare, allegramente, dei loro ricordi
d’infanzia. Nulla più,
nell’aspetto di Elvira, sembrava fuori posto ed ora non
dimostrava più venti o
trenta anni di troppo, anzi, sembrava perfino più giovane
della sua età
anagrafica.
Elvira
si era presa una bella sgridata dai genitori, il giorno in cui, a soli
sette,
otto anni, essendo restata da sola in casa, per non più di
mezz’ora, con le due
più piccine, aveva sbucciato e tagliato a pezzettini una
patata e l’aveva
fritta nella piccola pentola di Rossana; però era diventata
un’eroina agli
occhi delle altre due. In effetti, tutto era nato da una scommessa,
perché le
pentole giocattolo “vere” a quell’epoca
non esistevano ancora in Italia, ma
Rossana le aveva ricevute in regalo da una zia che viveva in America.
Dolores
non voleva credere che ci si potesse davvero cucinare dentro,
così Elvira
gliene aveva dato un’ottima dimostrazione pratica, tanto che
dopo cinquant’anni
Dolores ancora ricordava quanto quelle patatine fossero saporite. Poi
continuarono a parlare, a lungo, sorridendo, dei ricordi di tante
piccole,
grandi, emozioni che avevano condiviso nell’infanzia, dalle
canzoni degli anni sessanta,
alla prima volta che avevano tentato di far funzionare il juke-box, dal
primo
mangiadischi, arancione, di Gaia (Dolores), che
“rosicchiava” davvero i suoi
poveri, malcapitati, dischi in vinile, lasciandoli tutti graffiati, ai
loro
primi tentativi di imparare il twist e l’hula hop.
Infine,
senza pensarci, Dolores domandò:
“Allora,
sei stata in America, negli ultimi anni?”
“No”,
disse Elvira un po’sorpresa, “non sono mai stata a
trovare gli zii, perché ho
paura di volare”. Poi il suo volto si rabbuiò e la
sua voce tornò piatta,
mentre domandava alla sua vecchia amica:
“Tu
lo sai, vero, che sono stata ammalata?”
“Sì”,
rispose, semplicemente, Dolores, che non se la sentì di
mentire. Allora Elvira
disse, con voce esitante, mentre guardava la sua amica con gli occhi
spalancati, come se ora avesse paura anche di lei:
“Loro
si vergognano di me … perciò raccontano che sono
stata all’estero ... e si
inventano tante assurdità su una mia presunta carriera in
America ... Loro si
sono sempre vergognati di me, anche quando fui bocciata in prima media
e
dissero a tutti che ero stata promossa ... Anche quando lasciai le
scuole
superiori, dopo che mi bocciarono due volte in terza … e
… dissero
a tutti che avevo preso il diploma ….
Io non ho mai lavorato … Sono stata prima, per tanto tempo,
in un istituto e
poi in una casa-famiglia. Ora l’edificio dove eravamo
alloggiati necessita di
importanti lavori di ristrutturazione e, per la prima volta, dopo molti
anni,
le nostre famiglie sono state praticamente costrette a riprenderci in
casa per un
po’… A
volte da ragazza sentivo le voci …
Adesso ti vergogni anche tu di farti vedere qui seduta a parlare con
me?”
“No”,
rispose Dolores, sinceramente sorpresa, “perché
mai dovrei vergognarmi di te?
Forse perché hai lasciato gli studi alle scuole superiori, o
perché non hai un
lavoro? Ho tante amiche che hanno scelto di fare le casalinghe e non ho
problemi a considerare un’amica anche la donna che da tanti
anni viene ad
aiutarmi nei lavori domestici, che ha frequentato solo i primi due anni
delle
scuole elementari e non ricorda più, se mai lo aveva
imparato, come si legge e
si scrive! Se poi ti riferisci al fatto che qualche volta parli da
sola, beh,
mi dispiace deluderti, ma non mi fa impressione, perché
anche mia nonna lo
faceva, di tanto in tanto, e questo non le impediva di essere la
persona più
buona, generosa e simpatica del mondo”.
Intanto
Dolores pensava che Elvira era probabilmente meno folle della sua
famiglia, che
a forza di emarginarla, nella corsa per l’arrivismo sociale,
aveva finito per
farne una diversa. In effetti Elvira era sempre stata una ragazza
seria,
attenta e sensibile, alla quale doveva essere costato davvero tanto
fingere di
essere stata promossa, perfino di avere preso il diploma superiore, e
ricevere
le congratulazioni degli amici, mentre soffriva atrocemente, dentro di
sé, per
la bocciatura. Oltre tutto, Dolores ricordava bene che Elvira avrebbe
voluto
iscriversi all’Istituto Alberghiero, ma in famiglia avevano
deciso che dovesse
diventare ragioniera, costringendola a studiare materie che non le
piacevano
per niente, mentre magari in altri campi avrebbe potuto concludere gli
studi
con profitto, per poi svolgere il lavoro che le piaceva, nel settore
turistico.
“Che
programmi hai per oggi?” Domandò Dolores, mentre
un’idea prendeva forma nella
sua mente.
“Resterò
qui a mangiare dei panini”, rispose Elvira, perché
mio cognato ha invitato a
pranzo delle persone molto importanti per il suo lavoro e ho capito che
la mia
presenza in casa potrebbe non essere gradita!”
“Ti
piacciono gli gnocchi?”
“Altroché!”
“Ieri
sera ne ho fatti per un esercito e fra poco arriveranno a casa i miei
figli e i
miei due nipotini; ti va di conoscerli e di preparare le patate fritte
anche
per loro?”
“Certo
che mi va!”
Così
si affrettarono insieme verso casa, chiacchierando allegramente, come
se gli
ultimi quarant’anni non fossero mai passati, per nessuna
delle due.
CAPITOLO
SECONDO
GITA
AL MARE
Il
pranzo era andato benissimo: Elvira aveva mantenuto la parola e aveva
fritto un
chilo di patate, conquistandosi le simpatie di tutti, soprattutto dei
nipotini
di Dolores, con i quali ora stava giocando allegramente a palla nel
corridoio,
divertendosi come una ragazzina. Dolores e sua figlia stavano
riordinando in
cucina. Gli uomini erano in salotto a guardare lo sport in TV.
Poi
i figli di Dolores salutarono e ripresero la via di casa. Allora anche
Elvira
disse che si era fatto tardi e doveva rientrare, però
Dolores le strappò la
promessa che sarebbero uscite insieme la domenica successiva.
Così una
settimana dopo, in una bellissima giornata, insolitamente mite,
rallegrata già
dai primi profumi della primavera, Dolores telefonò ad
Elvira per ricordarle
del loro accordo. Elvira se ne ricordava benissimo, anzi chiese a
Dolores di
andare insieme a prendere il sole sulla spiaggia. Dolores
accettò con
entusiasmo, così avrebbe potuto anche mostrare alla sua
vecchia amica la
minuscola casa per le vacanze che da poco aveva finito di costruire nel
suo
terreno vicino al mare.
Dolores
guidò l’automobile lungo la solita strada, che per
lei non aveva nulla di
nuovo; invece Elvira, che non viaggiava in macchina da tempo
immemorabile, si
guardava intorno con curiosità ed interesse. Quando
imboccarono l’uscita di
Poderia e passarono accanto al vecchio borgo medioevale di San Severino
di
Centola, Elvira trovò che il paesaggio fosse davvero
entusiasmante, in quella
stradina che passava in una gola tra i monti, con in alto le rovine
dell’antico
borgo e in basso il letto pietroso del fiume.
Infine,
un po’ stanche, perché il viaggio non era stato
breve, arrivarono sulla grande
strada che porta all’Arco Naturale. Fecero una pausa al
supermercato, dove si sbizzarrirono
a riempire il carrello con tutto ciò che nei giorni non
festivi sarebbe stato
proibito dalla dieta e si rimisero in macchina. Superarono anche il
bivio di
Palinuro e proseguirono per la piccola frazione di Caprioli. Anche
lì per
Dolores era tutto abituale, ma quel giorno i colori sembravano
più vividi
perché erano rallegrati dalla gioia e
dall’entusiasmo della sua amica. Infine
si fermarono, aprirono un vecchio cancello un po’ arrugginito
e imboccarono uno
stretto vialetto in salita. Girarono di nuovo a destra in un ampio
piazzale e
parcheggiarono la macchina. Di fronte a loro Elvira vide prima una
grande casa
bianca a quattro piani con le finestrine rosse, che in quel momento
erano tutte
chiuse perché la stagione dei bagni non era ancora
incominciata, e poi accanto
una minuscola casupola col cemento grezzo e le persiane verdi. Quello
era il
piccolo regno della sua amica Dolores, che aprì una
porta-finestra e la fece
entrare in un grazioso soggiorno, dove mise subito in funzione il
boiler perché
nonostante la bella giornata di marzo la casa, disabitata da mesi,
aveva
bisogno di un po’ di riscaldamento. La casa era molto
piccola, appena una
cinquantina di metri quadrati, ma l’interno era arredato con
cura, il bagno era
spazioso e conteneva una vasca per l’idromassaggio tanto
grande che avrebbero
potuto fare il bagno insieme, anche loro due che pesavano circa un
quintale
ciascuna!
Dolores
propose ad Elvira di indossare uno dei suoi costumi da bagno per andare
sulla
spiaggia a godere il sole caldo di quella bella giornata primaverile ed
Elvira,
che non era più stata al mare negli ultimi
quarant’anni e che le ultime volte,
poco più che adolescente, c’era andata proprio con
Dolores, agli stabilimenti
che allora riempivano gran parte del litorale, accettò ben
volentieri
l’offerta. Però rimase sconvolta quando vide che
cosa Gaia intendesse per
costume. Infatti le fu proposto di scegliere tra una serie di graziosi
bikini,
tutti francamente troppo ridotti per la sua mole, e chiese, invano:
“Ma
non hai un costume intero?”
“No,
mi dispiace; a dire il vero, appena cominciai ad ingrassare, quindici
anni fa,
mi feci una scorta di costumi interi, ma l’anno scorso decisi
di gettarli tutti
e di tornare al bikini, perché tanto non cambia niente, si
vede lo stesso che
sono grassa e sono stufa di stare sempre in punizione per
questo!”
Elvira
sorrise e capì il punto perché dopo pochi minuti
aveva indosso un bikini
marrone e si guardava allo specchio sorridendo accanto alla sua amica
che ne
aveva scelto con noncuranza addirittura uno a righe multicolori. Quindi
presero
la macchina e andarono a sdraiarsi pigramente sulla sabbia calda.
“Dolly”,
disse a un tratto Elvira, “non mi hai domandato nulla della
mia malattia!”
“A
dire il vero”, rispose l’amica “sono
stata sempre molto curiosa di capire
perché da un giorno all’altro ti isolasti da tutte
noi, ancora prima di andare
via da Napoli”.
“Tu
prendesti la seconda laurea in psicologia, vero?”
“No,
purtroppo no, perché nel 1981 ebbi il posto di ruolo a Vallo
Della Lucania e
dovendo viaggiare col treno ogni giorno da Napoli, e avendo anche tre
bambini
piccoli a casa, finii per abbandonare tutto a due esami dalla
laurea”.
“Vorrei
provare a raccontarti quello che ho passato …” e
poi, all’improvviso, come se
passasse ad un altro argomento: “Ti ricordi di Marcello
L.?”
“Sì,
certo che lo ricordo, studiava medicina, vero? Ed era fidanzato con
quella
ragazza antipatica, che si dava tante arie perché la sua
famiglia era molto
ricca … come si chiamava? Marisa
… credo
… lui, lo vedo ancora qualche volta per la strada e ci
salutiamo anche, mentre
la fidanzata non l’ho vista più, o forse
sarà cambiata e quindi non la
riconosco, ... comunque so che ora è sua moglie,
perché si sposarono … tanti
anni fa … hanno anche una figlia, che dovrebbe essere adulta
ora, avrà più di
venti anni …”.
Mentre
parlava, guardando il mare, Dolores seguiva distrattamente il flusso
dei suoi
ricordi e non si era accorta che Elvira diventava sempre più
pallida e sembrava
tremare di freddo nonostante il sole, a mezzogiorno, fosse
particolarmente
caldo. Però, non udendo nessuna risposta da parte
dell’amica, si girò di scatto
e capì che quell’argomento suscitava ancora in
Elvira dei ricordi dolorosi,
dopo tanti anni.
Elvira
fece uno sforzo per riprendere a parlare:
“Credevo
che mi avrebbe fatto bene confidarmi, ma mi accorgo che non ci riesco,
è ancora
troppo difficile, però voglio che tu mi aiuti a capire
quello che mi è
successo; … sai, tornando a casa di mia madre, nei giorni
scorsi, diedi uno
sguardo ai miei vecchi libri e quaderni, che avevo lasciato in una
scatola
prima di partire, e ho trovato un diario segreto di quel periodo. Pensi
di
avere un po’ di tempo per leggerlo?”
“Si,
certamente, il tempo lo troverò”, rispose Dolores,
un po’ perplessa “però non
lo so se le mie conoscenze sono sufficienti per esserti veramente di
aiuto. In
verità ho continuato, in tutti questi anni, nel tempo
libero, a leggere tutto
quello che potevo sulla psicologia, la psichiatria e la psicoanalisi,
però ho
avuto pochissimi contatti diretti con i malati …”.
“Non
preoccuparti”, rispose Elvira “è da
quando avevo sedici anni che parlo con
professionisti, ora ho bisogno di te soprattutto come amica”.
Dolores
annuì mentre entrambe scuotevano la sabbia dagli asciugamani
per riprendere la
via di casa.
Appena
a casa, fecero una doccia veloce e ripartirono subito per Napoli
perché il
giorno dopo Dolores aveva lezione alla prima ora.
CAPITOLO
TERZO
MATRIMONI
NAUFRAGATI
Il
lunedì pomeriggio si incontrarono di nuovo, in un bar, per
chiacchierare ancora
un po’ davanti ad una tazza di the caldo. Parlarono di
Rossana ed Elvira
confidò a Dolores le sue preoccupazioni per il matrimonio di
sua sorella, che
stava naufragando dopo più di trent’anni di vita
tranquilla. Dolores si
meravigliò molto che Giancarlo, il marito di Rossana, fosse
diventato un
farfallone alle soglie dei sessant’anni. Lei lo conosceva
bene, o meglio lo
aveva conosciuto bene una quarantina di anni prima. Era diventato suo
compagno
di scuola in terza, al liceo linguistico. Aveva detto a tutti di aver
cambiato
scuola dopo essersi trasferito da un paese vicino. Ma presto si era
saputo che
in realtà aveva cambiato dopo essere stato bocciato due
volte nella scuola di
provenienza. Comunque, a parte i risultati scolastici scadenti, era un
bravo
ragazzo. Dolores sapeva di essere stata il suo primo amore. Giancarlo
aveva
anche tutta l’aria di fare sul serio con lei,
perché era andato perfino a
conoscere i suoi genitori. In effetti, un giorno in cui Dolores era
uscita con
le amiche, Giancarlo si presentò a casa sua con un profumo e
fece una lunga
chiacchierata con quella che sperava essere la sua futura suocera. La
mamma di
Dolores era stata gentile con lui, però gli aveva spiegato
che non poteva
prendere il profumo a nome della figlia e gli aveva dato il permesso di
tornare
per parlare con Dolores stessa.
Allora
Giancarlo aveva lasciato alla sua amata un bigliettino con delle frasi
dolci e
poetiche che di sicuro avrebbero intenerito anche un cuore di pietra,
se non
fossero state sorprendentemente piene di strafalcioni di ortografia. A
quell’epoca Dolores non solo era la prima della classe, ma
era anche un po’
“secchioncella”, quindi non riuscì a
perdonare a quel povero ragazzo la sua
ignoranza e lo bollò come uno stupido senza appello.
Così, quando si
incontrarono di nuovo, gli disse di essersi fidanzata con Luca,
“uno grande”
che realmente le faceva la corte in quel periodo, ma che in
realtà non la
attirava particolarmente.
Già,
perché dopo un’adolescenza sfortunata, a sedici
anni, Dolores aveva seguito una
dieta rigidissima e infine era diventata una delle ragazze
più popolari della
scuola. Poi Dolores stessa aveva presentato Giancarlo a Rossana e un
giorno la
sua amica le aveva domandato se poteva fidanzarsi con lui o Dolores lo
considerava ancora come un proprio corteggiatore. Dolores le aveva
risposto
ridendo che non ci teneva a quel corteggiatore, ma non se la sentiva di
raccomandarlo alla sua migliore amica perché lo considerava
un po’ scemo. Poi
ebbe a pentirsi di aver parlato così sinceramente, e anche
avventatamente,
perché i due si fidanzarono per davvero e i suoi rapporti
con entrambi non ne
guadagnarono affatto.
Intanto
che Dolores si era persa nei suoi ricordi, Elvira stava continuando a
spiegarle
quanto sua sorella fosse triste, con quel marito che si era invaghito
per una
giovane straniera, probabilmente di pochi scrupoli, e con la
prospettiva di
trascorrere la vecchiaia in povertà, visto che non aveva un
lavoro e lo
stipendio del marito non sarebbe bastato a mantenere decorosamente le
due
famiglie.
Dolores
si dispiacque molto dell’accaduto e si ripromise di provare a
riallacciare i
rapporti con l’amica in difficoltà, se le fosse
stato possibile.
Parlando
di matrimoni naufragati, finirono per ricordare le strane avventure
della loro
comune amica, Vera. Vera era stata un’adolescente bella,
ricca e fortunata. La
sua famiglia si era trasferita a Napoli dal Piemonte perché
il padre, che era
un chirurgo plastico già abbastanza affermato, aveva appena
accettato
un’offerta di lavoro molto vantaggiosa da una lussuosa
clinica di Napoli. Così
affittarono uno degli attici più belli della
città e una grossa ditta di
traslochi li aiutò a trasferirsi in pochi giorni. Quella fu
la prima volta in
cui Dolores vide dei mobili trasportati all’esterno di un
fabbricato invece che
lungo le scale. Presto tutti i ragazzi del rione non parlavano
d’altro che
della nuova venuta, che era veramente carina e sensuale, con le sue
graziose
minigonne. Però un brutto giorno si diffuse la notizia che
la clinica per cui
il dottore lavorava era rimasta implicata in una vicenda giudiziaria
piuttosto
grave per cui molti medici si erano trovati non solo sospesi dal
lavoro, ma
anche indagati per vari reati. Il padre di Vera, che era stato uno dei
dirigenti, si trovò a rispondere di fatti che molto
probabilmente erano stati
tutt’al più commessi da altri. La famiglia si
trovò da un giorno all’altro in
povertà e la mamma si ritenne fortunata quando
trovò un lavoro, come
baby-sitter, che le permettesse di garantire almeno il necessario alle
sue due
figlie. Allora vendettero buona parte dei mobili e si trasferirono a
vivere in
uno scomodo appartamentino al piano terra. Da quel momento molti
ragazzi della
borghesia napoletana voltarono le spalle a Vera. Ma uno di loro, Marco,
l’amava
veramente e tra i due ragazzi nacque una storia che avrebbe potuto
diventare
importante, se il padre di Vera, nel frattempo, non fosse stato
riabilitato e
ricollocato in un nuovo posto di lavoro, purtroppo molto meno ben
pagato, a
Bari. Allora la famiglia si trasferì di nuovo e la storia
tra i due giovani fu
avversata dai genitori di Vera, che speravano di farla sposare al
più presto
con un uomo ricco, per togliersi il peso di almeno una delle figlie,
dal
momento che le loro condizioni economiche avevano risentito parecchio
di
quell’incresciosa situazione, mentre Marco non aveva ancora
prospettive di
lavoro abbastanza solide. La sfortuna di Vera volle che
l’uomo ricco si
affacciasse davvero al suo orizzonte, nelle vesti di un giovane di
quindici
anni più grande di lei, di buona famiglia, già
laureato in giurisprudenza e
docente universitario in una importante università del nord.
Condizionata dai
genitori, e conquistata dai regali importanti, che da un po’
di anni non poteva
più permettersi, non ancora diciottenne, e quindi alquanto
immatura per fare
una scelta per la vita, Vera decise comunque di fidanzarsi con quel
giovane
affettuoso e rassicurante. Ovviamente, voleva concedersi del tempo
prima di
decidere se fosse il caso di sposarlo. Ma ancora una volta le cose
presero una
piega inaspettata e Vera, senza neanche avere mai avuto rapporti
completi col
fidanzato, si trovò vergine e incinta. A quel punto il
matrimonio fu
programmato molto velocemente. Ma Vera restò vergine per
altri venti anni, come
se avesse deciso di preservarsi per il suo primo amore. Infatti non
accettò mai
di avere rapporti completi col marito, il quale continuò a
sperare che la
“giovane” moglie si sbloccasse, poi la convinse a
consultare uno psicologo
perché la aiutasse, ma questi la aiutò solo a
chiarirsi le idee e a liberarsi
del marito, che evidentemente non aveva mai amato. Così Vera
andò a chiedere
l’annullamento del suo matrimonio alla Sacra Rota,
benedicendo il ginecologo
che alla nascita del figlio aveva deciso per il parto cesareo. Intanto
Marco,
che aveva continuato a vivere a Napoli, ancora single, dopo due o tre
fidanzamenti falliti, incontrò la sorella maggiore di Vera,
che non era mai
andata via da Napoli, dove si era definitivamente stabilita anni prima,
dopo
essersi sposata con un giovane napoletano. Si riconobbero e decisero di
andare
insieme a prendere un caffè al bar per scambiare quattro
chiacchiere e
ricordare i vecchi tempi. Il discorso cadde inevitabilmente su Vera e
così Marco
venne a sapere che il suo matrimonio era naufragato e che lei viveva da
sola e
lavorava in una città del nord diversa da quella dove era
stata in precedenza
col marito e col figlio. Impulsivamente si mise in macchina e
andò a cercare la
sua ex ragazza. Come forse non succede neanche nei romanzi, la loro
storia
ricominciò da dove l’avevano lasciata. Vera chiese
ed ottenne il trasferimento
a Napoli e i due si sposarono e vissero felici e contenti, ma solo per
un paio
d’anni, perché dopo cominciarono i disaccordi e i
litigi. Le cause erano
banali, ma i risultati furono letali per la loro unione: Vera era
sempre
vissuta nel lusso, tranne la breve parentesi di un paio
d’anni in casa del
padre prima del primo matrimonio. Quindi era abituata alla villa, alla
cameriera, ai viaggi, ai ristoranti e agli alberghi a quattro stelle.
Marco non
era abbastanza ricco, ma non era neanche abbastanza generoso, per far
fronte
alle continue richieste della moglie e presto le incomprensioni
distrussero in
entrambi l’amore, per lasciare il posto alla delusione e al
rancore.
Mentre
Dolores raccontava ad Elvira la strana storia della loro comune amica,
un cd
con le canzoni degli anni sessanta le indusse entrambe a ricordare il
dondolo,
la rotonda sul mare e le loro buffe esperienze canore e pianistiche ai
corsi
pomeridiani della scuola media, però poi si salutarono in
fretta perché erano
uscite per una mezzoretta e invece si era fatto tardissimo.
CAPITOLO
QUARTO
IL
DIARIO
Il giorno dopo, tornando dal
lavoro, Dolores,
che insegnava inglese in un liceo classico, trovò un
pacchettino sulla consolle
dell’ingresso; sembrava un libro, avvolto in modo un
po’ approssimativo con
della vecchia carta da regalo. Lo prese in mano distrattamente,
avviandosi
verso la cucina con le buste della spesa. Era rientrata nella routine
della
settimana di lavoro e quasi non ricordava più le
conversazioni dei giorni
precedenti con l’amica.
Una
volta in cucina, posò prima i surgelati, poi lo yogurt e il
latte, poi tutto il
resto e infine, quasi meccanicamente, svolse la vecchia carta da regalo
e
sorrise quando vide un buffo, vecchio, diario segreto che lei stessa,
tanti
anni prima, aveva scelto per la sua amica, che compiva sedici anni,
esattamente
il tre maggio del millenovecentosessantotto. Era di tela gialla, un
po’ scambiata
dagli anni, con sopra tanti cuoricini di velluto rosso, di diverse
dimensioni,
che contornavano quella che prima era stata una serratura con un
lucchetto, ma
ora era solo un pezzetto di metallo un po’ arrugginito con
sopra un gancetto
spezzato.
La
prima pagina era datata 3 Maggio 1968 e cominciava, come nelle migliori
tradizioni, con le parole “Caro diario”, per poi
continuare:
“forse avrei dovuto scrivere quattro maggio,
non tre, perché è già l’una
di notte, ma non ho sonno. La mia festa è stata
bellissima, i compagni di scuola sono venuti tutti e hanno anche
portato tanti
amici. Non ho mancato un ballo e sono riuscita perfino a cavarmela
meglio di
quanto non mi fosse mai capitato prima. Sembrava che non fossi
più brutta e
timida, ma mi sentivo quasi bella, con il mio nuovo miniabito che
attirava,
come una calamita, gli sguardi dei fratelli maggiori dei miei amici.
Sì, perché
c’erano anche i ragazzi di quinta D e perfino due studenti di
medicina! Ho
conosciuto il ragazzo più bello e affascinante del mondo,
sono certa che sarà
il mio principe azzurro. Si chiama Marcello, ha ventitré
anni ed è già al
quinto anno di medicina. Appena me l’hanno presentato,
nell’ingresso, mi è
sembrato che la sua testa emanasse una luce speciale, quasi come
l’aureola dei
santi. Marcello è alto e snello e non parla molto, a volte
mi sembrava che
fosse un po’ timido anche lui, come me. Invece il suo amico,
Mimmo, meno alto,
ma decisamente carino, è un gran chiacchierone. Loro due
sono stati i primi ad
arrivare, insieme con la sorella di Mimmo, la mia amica Marianna.
Mimmo, quando
mi ha presentato Marcello, ha detto “Questo è un
mio amico macellaio”. Per un
attimo mi sono domandata come fosse possibile che un ragazzo
così bello, fine
ed elegante, facesse un mestiere così prosaico, ma poi ho
capito che quel
burlone stava scherzando, riferendosi ai luoghi comuni sulla
professione del
medico. Personalmente, credo che sia una professione bellissima e se
fossi un
po’ più brava a scuola mi piacerebbe iscrivermi a
medicina. La mia insegnante
di italiano dice sempre che ho sbagliato indirizzo di studi
perché scrivo
meglio dei miei coetanei che studiano nei licei, però
è l’unica materia che mi
piace, perché poi non riesco proprio a cavarmela col
diritto, la matematica, la
ragioneria e praticamente tutte le materie che sono considerate
importanti
all’istituto tecnico commerciale. Marcello è stato
meraviglioso: dopo un po’ di
imbarazzo iniziale, ha parlato con me di tutto, anche di argomenti
medici che
non riuscivo a capire, però mi sono guardata bene dal
dirglielo, speriamo che
la mia espressione non mi abbia tradita! Era proprio difficile seguirlo
quando
parlava: credo che abbia fatto il liceo classico, perché
quando non parlava di
medicina ha fatto più volte riferimento ai personaggi dei
miti greci, devo
assolutamente comprarmi un libro di mitologia facile, se non voglio
sfigurare
la prossima volta che lo incontrerò. Ma ci sarà
una prossima volta? Lui passa
buona parte della settimana a Roma, e torna solo per il
“weekend”, come ha
detto lui, maledetto il giorno in cui i miei genitori, alle scuole
medie, mi
iscrissero in una sezione di francese. Ora un po’ di inglese
l’ho imparato,
alle superiori, appena sufficiente per capire il significato della
parola
weekend, appunto, ma non abbastanza per capire i testi delle canzoni
dei
Beatles, che sembrano essere un’altra delle sue passioni ...
Oh, no, mio padre
si è alzato per andare in bagno, se vede che ho ancora la
luce accesa comincia
una predica senza fine … devo spegnere subito!
Domenica
5 maggio
Ieri,
all’uscita dalla scuola,
con i soldi che mi avevano regalato i nonni per il compleanno comprai
tutti i
dischi dei Beatles che riuscii a trovare e li ascoltai per tutto il
pomeriggio.
Poi uscii con Vittoria e dopo un po’, indovina, incontrammo
proprio Marcello,
che cominciò a passeggiare con noi! Era ancora
più bello di come me lo
ricordavo e appena lo vidi diventai di tutti i colori, credo, e poi per
almeno
un quarto d’ora non riuscii a dire assolutamente nulla. Mi
sembrava perfino
strano che riuscissi a continuare a camminare, tanto mi tremavano le
gambe.
Però forse lui non se ne accorse, perché Vittoria
chiacchierò allegramente per
tutto il tempo! Poi, avevo appena cominciato a ragionare di nuovo,
quando
incontrammo un gruppo di ragazze e ragazzi più grandi e lui
ci salutò per
unirsi a loro. Al ritorno mi sentivo uno straccio, ma poi Loredana mi
ha detto
che sabato ci sarà una festa a casa di una delle ragazze di
quella comitiva,
che è la sorella maggiore della sua compagna di banco, e che
se voglio posso
andare con lei! Avrei voluto mettermi a cantare e a saltare,
però mi sono
trattenuta perché non so se posso fidarmi di mia sorella, e
se papà capisce
qualcosa mi chiude in casa e getta via la chiave! Ora però
mi devo mettere a
studiare, perché se continuo ad andare così male
a scuola rischio di non avere
il permesso per la festa.
Domenica 12 maggio
La settimana
è passata
lentamente, senza nulla di nuovo. Ieri era una giornata molto fredda e
piovosa.
La casa dei nostri amici era un po’ lontana e mamma mi
costrinse a mettere quel
brutto vestito blu, invernale, che mi aveva fatto fare dalla sua sarta.
Quando
arrivai alla festa cominciai subito a sentirmi fuori posto. Marcello
fece il
primo ballo con me, ma poi entrò in sala una ragazza alta e
snella, in minigonna,
e fecero coppia fissa per il resto della serata.
Martedì 14 maggio
Stamattina
mi è successa una cosa
a dir poco strana: mentre ci preparavamo per andare a scuola ho
cominciato a
parlare con mia sorella della visita che ieri sera ci avevano fatto le
nostre
amiche, Vittoria e Gaia, che erano anche restate a cena con noi, ed io
avevo
cucinato la pasta al forno per tutti. Ma Rossana mi ha guardata stupita
e mi ha
detto: perché mi racconti tutte queste bugie?
Sarà passato almeno un mese
dall’ultima volta in cui qualche amica ha cenato qui con noi.
Non ti ricordi
che ieri mangiammo un panino al prosciutto mentre guardavamo
“Pane, Amore e
Fantasia” alla TV a casa della signora Barone?
“Come,
un mese”? Ho risposto,
mentre mi rendevo conto che c’era qualcosa di vero nelle
parole di mia sorella,
perché ricordavo bene di aver visto il film di cui Rossana
stava parlando.
Infatti noi non abbiamo ancora comprato il televisore perché
mio padre dice che
ci fa distrarre dallo studio e poi costa troppo e consuma corrente,
così spesso
la sera andiamo dalla nostra vicina di casa, soprattutto quando
c’è da vedere
un bel film.
“E
va bene, scusami, sarà stato
l’altro ieri”, le concessi, un po’
perplessa. Ma Rossana non ricordava nemmeno
che io sapessi cucinare la pasta imbottita e alla fine ho cominciato a
pensare
che i miei ricordi della sera prima forse erano in realtà
soltanto un sogno che
avevo fatto durante la notte. Mi sono guardata bene
dall’ammetterlo con mia
sorella, altrimenti mi prenderà in giro per il resto dei
miei giorni. Invece ho
detto “Sì, hai ragione tu, è successo
parecchio tempo fa e forse tu non c’eri,
deve essere stato quella volta che andasti alla festa di Adriana e
restasti a
dormire con lei la notte”.
Domenica 19 maggio
Mi dispiace
di non avere avuto il
tempo di scrivere nulla, ma oltre tutto non avevo nulla da scrivere:
non l’ho
visto più; ieri e l’altro ieri costrinsi Vittoria
a passeggiare con me per
tutto il pomeriggio sotto casa sua, ma lui non è uscito di
casa. Poi stamattina
a messa mi sono fatta coraggio e ho chiesto di lui al fratello di
Marianna e mi
ha detto che è rimasto a Roma a studiare perché
domani ha un esame.
Martedì 21 maggio
Oggi al
ritorno da scuola ho
trovato una bella sorpresa: Luca, il mio cugino americano, è
qui in Italia con
degli amici universitari. Ci sono anche un ragazzo e una ragazza di
colore. Lui
ha pranzato con noi, poi mamma li ha aiutati tutti a trovare una
sistemazione
per la notte, non a casa nostra, perché purtroppo non
abbiamo posto, ma presso
una signora che affitta le camere a studenti. Stasera siamo andati
tutti a cena
fuori, e ci siamo divertiti molto, ma poi è successa una
cosa molto sgradevole:
ho sentito che da un altro tavolo, alle nostre spalle, degli uomini
dicevano, a
voce altissima, delle cose orribili sui due ragazzi di colore. Ho
guardato mia
sorella, che era accanto a me, ma dalla sua espressione ho capito che
non aveva
sentito nulla; anche l’altra mia sorella sembrava tranquilla,
come sempre.
Allora mi sono tranquillizzata anch’io perché ho
pensato che se le mie sorelle
non avevano sentito, di certo i due interessati, anche se studiano
italiano
all’università, non avranno capito il dialetto
salernitano. Ma dopo un po’ quei
tipi hanno ripreso, più insistenti di prima, allora ho
guardato mio cugino, convinta
che lui avesse capito tutto e che stesse per far scoppiare un putiferio
nel
ristorante, invece lui era tranquillo, come se nulla fosse accaduto.
Evidentemente aveva deciso che se gli interessati non avevano capito
non era il
caso che fosse lui ad informarli. Però quei due alle nostre
spalle non la
smettevano, così non ho potuto resistere e mi sono girata
per vedere come erano
fatti e per rivolgere loro almeno un’occhiataccia, ma quando
li ho visti
sembravano molto diversi da come me li ero figurati: avevano
l’aspetto di due
distinti signori di mezza età e stavano parlando di arte
moderna, con tono
pacato. Forse le voci che avevo sentito provenivano da un altro tavolo,
più
lontano, ma in quella saletta ce n’era solo un altro, di
tavoli, ed era occupato
da un gruppo di donne e bambini! Forse le persone che avevo sentito
stavano
passeggiando sul marciapiede, fuori dal ristorante?
Sabato 25 maggio
Ho perso tre
chili! Al ritorno da
scuola ho chiesto al panettiere di lasciarmi pesare sulla bilancia che
usa per
i sacchi di farina: ebbene, due settimane fa pesavo sessanta chili,
mentre oggi
ero cinquantasette! Se riesco a dimagrire ancora un po’,
forse dopo Marcello
lascerà quella spilungona antipatica e mi
corteggerà di nuovo come fece alla
mia festa. Ieri pomeriggio, mentre andavo in cartoleria a comprare il
quaderno
di italiano, che mi era finito, sentii due persone, dietro di me, che
dicevano
che un’altra ragazza della mia età aveva fatto una
dieta molto rigida ed era
riuscita a dimagrire di dieci chili e poi una casa di moda le aveva
offerto di
sfilare in passerella. Mi girai per vedere se li conoscevo,
così avrei potuto
domandare di che tipo di dieta si trattava, ma vidi una persona sola
che
camminava dietro di me, un signore di mezza età.
C’era anche una ragazza, ma
stava camminando sull’altro marciapiede. Forse si erano
già salutati, e ora lei
stava andando via a passo veloce? ... Comunque non li conoscevo e non
ebbi il
coraggio di fermare nessuno dei due.
Domenica 26 maggio
Mi sono
buscata l’influenza, però
sono felice, perché lui mi ha chiamata al telefono per
chiedermi come stavo e
abbiamo parlato di tutto, per quasi un’ora. Alla fine mi ha
promesso che
domenica prossima mi porterà a fare una gita in macchina in
costiera! Sono la
donna più felice del mondo! Però appena
starò meglio dovrò uscire a comprarmi
qualcosa di bello da indossare, perché non voglio mai
più rischiare di
sfigurare davanti a lui come successe a quella orrenda festa di
quindici giorni
fa.
Lunedì 27 maggio
Stamattina
è successa una cosa
tanto bella quanto inaspettata: alle nove erano usciti tutti, tranne
me, che
non sto ancora proprio bene. Ad un tratto ho sentito bussare alla
porta, quindi
sono andata ad aprire, pensando che fosse mamma di ritorno dalla spesa,
invece
era lui, più bello che mai! Mi ha detto che aveva lezione
solo di pomeriggio,
quindi prima di andare via per tutta la settimana aveva voglia di
rivedermi!
Quasi dimenticavo, mi ha portato un meraviglioso mazzo di rose rosse!
Poi è
scappato via perché abbiamo sentito arrivare
l’ascensore e abbiamo pensato che
potesse essere mamma. E’ la prima volta che un uomo mi regala
dei fiori. Li ho
nascosti nel mio armadio, sotto le maglie invernali, perché
qui, se li trova
qualcuno, finisce male.
Venerdì 31 maggio
Oggi sono
uscita da sola, con in
tasca tutti i soldi che mi erano rimasti dalla festa di compleanno, e
ho
comprato una gonna bellissima e una camicetta a fiori che mi sta uno
schianto e
poi una giacca nuova, di una lana morbidissima e pelosa, che sembra
cashmere!
Quando sono tornata a casa ho detto a mamma di avere speso esattamente
la metà
del prezzo vero, ma ha detto lo stesso che era tutto troppo caro. Ho
promesso
che la prossima volta ci starò più attenta, ma
dentro di me sono felicissima
degli acquisti fatti e non vedo l’ora di farli vedere a tutte
le mie amiche!
Sabato
1 giugno
Oggi siamo
andati tutti a casa di
Rosa. Ho indossato i vestiti nuovi perché speravo che lui
sarebbe arrivato da
un momento all’altro, ma non è venuto. Come se non
bastasse, poco fa, quando
sono tornata a casa, mi è successa una cosa strana e
terribile: nel riporre la
giacca, ho notato che ha un difetto sotto una manica. Per fortuna
è in un punto
nascosto, però mi dispiace lo stesso. Non avrebbe dovuto
succedere, con quello
che l’ho pagata. Non posso neanche andare a cambiarla
perché non ho più
l’etichetta e comunque adesso i negozi sono chiusi. Domani
è domenica e dovrò
indossarla in ogni caso perché non ho niente di meglio.
Sembra come se qualcuno
ne avesse tagliato via un pezzettino con la punta delle forbici. Per
fortuna il
tessuto non si è rotto, è solo il pelo che
è stato portato via, in quel punto.
Possibile che qualcuno me l’abbia fatto per dispetto quando
la giacca era
appoggiata sul letto a casa di Rosa? Chi? Solo lei stessa avrebbe
potuto farlo,
perché ha insistito con tutti per prendere personalmente le
giacche e portarle
da sola in camera da letto. Prima avevo pensato che forse la camera era
un po’
in disordine e perciò non voleva che entrassimo, ma ora non
posso fare a meno
di ricordare il suo sguardo invidioso, quando mi ha vista arrivare.
Beh, meglio
non pensarci: domani sarà una giornata meravigliosa e non
permetterò che un
taglietto sotto la manica della giacca me la rovini.
Domenica 9 giugno
Strano, mi
sto accorgendo che nei
giorni scorsi non ho scritto niente, invece ero convinta di avere
scritto già
tutto. Appena ho aperto il diario e non ho trovato nulla ho pensato che
qualcuno l’avesse letto e avesse strappato le pagine, ma non
mi sembra
possibile, perché non manca nessuna pagina. Comunque sono
felice, perché
domenica scorsa mi sono fidanzata con Marcello. Quando mi svegliai lui
era già
sotto la mia finestra e suonava una canzone bellissima accompagnandosi
con la
chitarra. Mi vestii in un lampo e volai nella sua macchina. Dopo un
po’ ci
fermammo in un prato verde, meraviglioso, e ci abbracciammo, poi ci
stendemmo
sul prato, sempre abbracciati, e cominciammo a rotolare
sull’erba come due
bambini che giocano. Poi abbiamo passeggiato, sempre abbracciati, e poi
ci
siamo baciati. E’ stato un bacio dolcissimo, a bocca chiusa,
e lo ricorderò per
tutta la vita.
Domenica 16 giugno
Mi sembrava
di avere scritto
anche ieri, invece evidentemente volevo farlo e poi me ne sono
dimenticata.
Comunque questa settimana ci siamo visti tutti i giorni,
perché lui non è
andato a Roma. Spero che non stia trascurando lo studio per me. Ogni
giorno è
venuto a prendermi dalla scuola con in mano un regalino: ora nel mio
armadio,
sotto le maglie invernali, c’è anche una splendida
collana di corallo rosa, un profumo
di Chanel, una scatola di baci Perugina e una di gianduiotti, un
bellissimo
foulard di seta bianco e rosso e una farfalla di filigrana
d’argento. Però oggi
non ci siamo visti, perché stamattina è tornato a
Roma. Così sono andata a
messa con le mie sorelle e all’uscita ho sentito una cosa
strana: la mamma di
Marcello diceva ad una sua amica che il figlio manca da Napoli da
più di un
mese perché si è fidanzato con una ragazza che
studia a Roma e nessuno dei due
sta più rientrando a casa per il fine settimana. Per un
attimo mi sono
domandata perché stesse raccontando tante bugie, poi mi sono
ricordata che
Marcello ha un fratello che studia legge, evidentemente la mamma stava
parlando
di lui. Però forse ho proprio capito male, perché
io l’ho visto più volte, a
Napoli, nei giorni scorsi, il fratello di Marcello, con la sua solita
fidanzata, che non è universitaria, ma fa ancora
l’ultimo anno di liceo.
Sera
Ho provato
per tutto il
pomeriggio a telefonare al numero della padrona di casa, che Marcello
mi diede
tempo fa, ma il numero risultava inesistente! Non trovo più
il foglietto dove
l’avevo scritto, ma sono sicura di ricordarlo benissimo a
memoria.
Lunedì
Sono
disperata: stamattina non
sono andata a scuola perché avevo un forte mal di testa,
così, quando tutti
sono usciti, ho aperto l’armadio e tolto le maglie pesanti
per accarezzare
tutti i miei tesori, ma non c’erano più. Forse
mamma li ha trovati mentre
riordinava e li ha nascosti perché non sa se sono miei o di
Loredana, così
aspetta che una di noi si tradisca: che faccio, ci riesco a fare finta
di
niente? Intanto continuo a telefonare invano al numero di Roma, ma
è sempre
sbagliato. Stanotte non sono riuscita a dormire neanche un minuto e
dopo
essermi rigirata nel letto non ce l’ho fatta più e
mi sono alzata e ho
cominciato a camminare su e giù per la stanza. Alla fine
Rossana si è svegliata
e le ho detto che avevo mal di stomaco perché avevo mangiato
un’arancia dopo
cena e avevo fatto acido. Per fortuna si è riaddormentata
quasi subito e non si
è accorta che sono rimasta alzata fino alle prime luci
dell’alba.
Martedì
Stamattina,
mentre andavo a
scuola, mi è successa una cosa strana: mi sembrava che i
disegni sulle
mattonelle del marciapiede si sollevassero. Poi a scuola alla terza ora
vedevo
i compagni e il professore di ragioneria che ondeggiavano, come se
fossimo
tutti su una nave. Questa influenza deve avermi proprio ridotta uno
straccio.
Forse sono anche stanca perché nemmeno stanotte sono
riuscita a dormire.
Sera
Oggi dopo
pranzo mi sono stesa
sul letto e mi sono addormentata, ma dopo un po’ mi sono
svegliata sentendo i
vicini che parlavano male di me: dicevano che sono diventata una
ragazza poco
per bene e non si meraviglierebbero se venissero a sapere che aspetto
un
bambino. Ho guardato mia sorella che stava studiando lì
vicino, convinta che
stesse per scoppiare un putiferio, ma per fortuna era così
immersa nello studio
che non ha sentito nulla.
Mercoledì
Oggi, quando
tornavo dalla
scuola, avevo i libri pesanti e mi sentivo stanca, così ho
preso l’ascensore.
Appena ho chiuso le porte ho sentito i portieri che bisbigliavano
qualcosa su
di me: non ho capito tutte le parole, ma sono sicura che anche loro
pensino che
sono incinta.
Venerdì
Oggi
pomeriggio mamma mi ha
chiesto di aiutarla a fare le provviste, così siamo uscite
insieme. Mentre
tornavamo, con in mano le buste della spesa, delle persone dietro di
noi hanno
detto qualcosa tipo: sembrava una così brava ragazza, non
bisogna mai fidarsi
delle apparenze. Ho guardato mamma, convinta che fosse la fine, ma per
fortuna
lei non ha capito che parlavano di me. Quanto mi manca Marcello! Quando
sono
tornata gli ho scritto una lunga lettera, per dirgli quanto mi ha resa
felice
quel giorno in cui andammo a baciarci e abbracciarci su quel prato
meraviglioso.
Però non so dove mandargliela. Sarà meglio che la
conservi dentro il diario e
quando verrà la leggeremo insieme. Ora devo andare a cena
prima che vengano a
chiamarmi e si accorgano che non sto studiando. Forse lui
telefonerà presto per
dirmi che è arrivato a Napoli e domani possiamo finalmente
uscire insieme. Devo
stare vicino al telefono, così posso rispondere e fingere
che sia Vittoria. Una
volta, qualche settimana fa, rispose mamma al telefono, ma lui disse
che era un
compagno di scuola e che gli serviva l’assegno per il giorno
dopo.
Sabato
Anche la
notte scorsa non ho
chiuso occhio e stamattina ero tentata di dire ai miei genitori che mi
sentivo
male e volevo restare a casa, ma poi ho pensato che dovevo far finta di
niente
e uscire altrimenti poi mi sarebbe stato difficile incontrare il mio
amore.
Speravo di trovarlo prima di entrare a scuola, e allora avrei fatto
filone per
stare con lui un po’ di più, ma non
c’era, così sono entrata, però mi sono
giustificata in tutte le materie e per una volta i professori non mi
hanno
fatto nemmeno tante storie, anzi quella di italiano mi ha guardata e
sembrava
veramente preoccupata per la mia salute. In effetti avevo gli occhi
molto
arrossati perché mentre salivo le scale,
all’ingresso, avevo sentito delle
ragazze di un’altra classe che parlavano di me alle mie
spalle e dicevano che
il mio fidanzato si era già stancato di me perché
sono troppo brutta e dovrei
almeno rifarmi il naso. Poi una ha detto che non poteva credere che mi
avesse
mai baciata, col mio alito orribile. Un’altra ha detto che i
miei vestiti hanno
un cattivo odore, perché non li lavo mai. Allora non sono
entrata subito in
classe, ma sono andata in bagno a piangere. Poi alla quinta ora ho
chiesto alla
professoressa di uscire e sono andata di nuovo in bagno a truccarmi per
bene,
perché ero convinta che lo avrei trovato fuori ad
aspettarmi, invece lui non
c’era. Non ce la faccio più ad aspettare, fra poco
trovo una scusa per uscire
da sola e vado a cercarlo a casa.
Domenica
Anche
stanotte non ho dormito
quasi per nulla. Ora sono tutti a messa, ma io ho detto di avere un
po’ di
febbre e sono rimasta a casa. Non ho dovuto nemmeno insistere
perché mi hanno
creduto subito: chi è così stupida da restare a
casa di domenica se non si
sente male davvero? Ieri sera andai a citofonare a casa di Marcello e
mi
rispose il fratello. Gli dissi che si trattava di una cosa importante,
allora
mi fece salire. Era solo in casa, perché, disse,
“Marcello non torna a Napoli
neanche questa settimana, non lo vediamo da più di un mese,
mamma è furiosa”.
Mi domando perché tutti continuino a dire questa strana
bugia, però non ho
avuto il coraggio di chiederglielo, l’ho solo pregato di fare
avere la mia
lettera al fratello e di dirgli di contattarmi appena possibile e lui
mi ha
assicurato che Marcello tornerà certamente in settimana,
forse dopodomani, per
il matrimonio della cugina.
Lunedì
Inutile dire
che neanche oggi
l’ho visto. Però è stato meglio
così. Infatti stamattina alla seconda ora siamo
stati da soli, perché mancava la professoressa,
però non è stato divertente,
perché Iole, la mia compagna di banco, si allontanava da me
ogni volta che
parlavo. Ho cambiato posto, ma anche l’altra ragazza ha fatto
la stessa cosa.
All’uscita mi sono fermata a comprare uno spazzolino e un
dentifricio da
viaggio, così prima di uscire da scuola mi posso lavare i
denti nel bagno. Poi,
a casa, mi sono guardata a lungo i denti allo specchio per vedere se ci
fosse
qualche carie. Alla fine ho detto a mamma che mi facevano male tutti i
denti
per convincerla a portarmi dal dottore Francia, il nostro vecchio
dentista. Lui
è stato molto gentile e ci ha dato subito un appuntamento,
però non ha trovato
nulla né ai denti né alle gengive e ha detto che
forse era una nevralgia dovuta
a un colpo di freddo. Allora gli ho detto che il motivo principale per
cui ero
lì era che le mie compagne dicevano che ho l’alito
cattivo e lui mi ha
consigliato di mangiare cibi leggeri, di bere più spesso, e
di lavare i denti
qualche volta in più, e di consultare il medico di famiglia
se dovesse accadere
ancora.
Martedì
Oggi, dopo
la scuola, finalmente
l’ho rivisto. Prima ero stata in bagno a lavare i denti e
rifare il trucco.
Però lui era completamente diverso. Si è fatto
crescere la barba e i baffi e
non mi sembrava nemmeno più lui. Quando lo incontrai la
prima volta, alla
festa, non aveva né la barba né i baffi, poi
quella domenica, quando venne a
prendermi a casa, aveva solo i baffi, biondi, ed era bellissimo, però mi disse
che li avrebbe tagliati, per
non pungermi quando mi baciava. Infatti dopo, quando mi veniva a
prendere
all’uscita dalla scuola, non li aveva più. Ora
invece aveva la barba e i baffi
neri, ed erano anche troppo lunghi per essergli ricresciuti in
così pochi
giorni. Che fossero finti? Quale sarà il mistero nella sua
vita che obbliga i
familiari a dire che lui non è a Napoli, mentre è
evidente che c’e? Oggi aveva
anche un’altra macchina, grigia, completamente diversa da
quella sportiva,
rossa, che aveva il giorno in cui venne a prendermi sotto casa. Gli ho
domandato che ne avesse fatto della macchina rossa dell’altra
volta e mi ha
risposto che non ne ha mai avuta una. Aveva in mano la mia lettera e mi
ha
fatto una domanda stranissima:
“Stai
scrivendo un romanzo
d’amore?”
“No,
perché?”
“Allora
è una lettera per il tuo
ragazzo?”
“Sì!”
“Beh,
sono certo che sarà molto
contento quando gliela darai, la mia ragazza non è romantica
come te, ma se lo
fosse non mi dispiacerebbe. Ciao, buona fortuna!”
Mi ha messo
la lettera in mano ed
è andato via, come se non ricordasse più nulla
della nostra storia.
Mercoledì
Stamattina,
dopo un’altra notte
insonne, non ce l’ho fatta più e sono esplosa. Ho
chiesto singhiozzando a mia
madre di ridarmi subito tutte le mie cose che aveva preso
dall’armadio, ma
dalla sua espressione ho capito che davvero non ne sapeva niente. Anche
le mie
sorelle sembravano sincere quando mi hanno giurato che non ne sapevano
niente.
Perfino mio padre si è guardato bene dal fare una scenata,
quando ho parlato
del mio fidanzamento, ma mi guardava in silenzio, con gli occhi
spalancati,
come se fosse spaventato. Allora chi le ha prese, tutte le cose che
Marcello mi
aveva regalato?
Giovedì
Stamattina
non sono andata a
scuola, mi sentivo troppo uno straccio. Verso le dieci è
venuto a farci visita
il figlio di un amico di mio padre che non avevo mai visto prima, uno
strano
tipo, che insisteva per conoscere tutta la famiglia. Io non avevo
proprio
voglia di incontrare nessuno, ero ancora in pigiama e quando mi sono
guardata
allo specchio avevo un aspetto talmente spaventoso che per un
po’ ho creduto
che le mie sorelle mi avessero fatto uno scherzo e avessero messo
qualche
diavoleria deformante davanti allo specchio per farmi dispetto.
Comunque tutti
hanno insistito che dovevo conoscerlo e alla fine mi sono rassegnata.
Oltre
tutto, dopo un po’ sono spariti, ognuno con una scusa
più o meno sciocca, e mi
hanno lasciata da sola ad intrattenerlo. Lui sembrava incredibilmente
interessato a tutto quello che faccio, alla scuola, al tempo libero, ai
miei
amici, e alla fine, non so come, mi sono trovata a confidargli tutte le
strane
cose che mi sono capitate negli ultimi giorni. Per un po’ ho
perfino pensato
che i miei genitori avessero chiamato un investigatore
perché scoprisse come
mai a casa nostra ultimamente le cose spariscono dagli armadi, ma poi
lui mi ha
detto che fa lo psichiatra in una clinica in Toscana e mi ha perfino
chiesto se
mi va di andarla a visitare. Se mio padre non fosse così
contrario ai
fidanzamenti precoci, penserei che stessero cercando di combinare un
matrimonio
per me o per Loredana.
Venerdì
Anche oggi,
alle dieci, è
arrivato lo stesso tipo di ieri. Questa volta in casa
c’eravamo solo mamma ed
io, così non ho potuto rifiutarmi di intrattenerlo mentre
lei andava a
preparare un caffè. Mi sembrava di vivere in un incubo. Mi
ha rifatto quasi
tutte le stesse domande di ieri, ho perfino dubitato che avesse il
morbo di
Alzheimer, come mio nonno, però lui non dimostra
più di una quarantina d’anni e
non sarebbe neanche brutto, se non fosse così noioso.
Intanto quel caffè non
arrivava mai. Forse mamma si era dimenticata di mettere
l’acqua e ha bruciato
la caffettiera. Io non volevo essere scortese, ma avevo tanto sonno e
non
vedevo l’ora di tornare a letto. Alla fine perfino lui si
deve essere
spazientito, perché ha chiamato mamma e ha chiesto se era
pronto il caffè.
Allora ne ho approfittato per prendere commiato e rifugiarmi finalmente
sotto
le coperte in camera mia. Però a quel punto mi sono
ricordata che non avevo
preso lo sciroppo per la tosse, così ho riaperto a
malincuore la porta della
mia stanza e mi sono rassegnata a ripassare davanti a quella del
soggiorno,
sperando dal più profondo del cuore che non mi chiamassero
di nuovo ad
intrattenere l’ospite, ma ho notato che lui e mia madre in
quel momento stavano
parlando sottovoce dietro la porta socchiusa. Erano in piedi dietro il
vetro e
li vedevo gesticolare, ma non si sentiva nulla di quello che dicevano.
Sollevata, sono andata in cucina e mi sono avvicinata in punta di piedi
all’altra
porta che divide la cucina dal soggiorno, per chiuderla senza che mi
vedessero,
ma per fortuna era già socchiusa e d’altronde loro
sembravano così immersi in
conversazione da non accorgersi di me. Però in quel momento
ho sentito
pronunziare il mio nome e mi sono fermata incuriosita per sentire che
cosa
dicessero. Lui ha detto “Spero di sbagliarmi, ma mi sembra un
inizio di
schizofrenia”. Evidentemente stavano parlando di mia cugina,
la figlia del
fratello di papà, che si chiama come me e l’anno
scorso tentò di suicidarsi
quando il fidanzato la lasciò e si mise con la sua migliore
amica. Comunque
adesso devo proprio coricarmi e chiudere gli occhi perché ho
la nausea e vedo
tante strane luci colorate.
Sera
Oggi, dopo
pranzo, stavo dormendo
in santa pace, quando mi sono svegliata di soprassalto
perché i miei stavano
litigando. Parlavano ancora della storia di mia cugina e ad un tratto
Loredana
ha detto che bisogna internarla al più presto, magari in
un’altra regione,
senza che nessuno sappia nulla della sua malattia, altrimenti il suo
fidanzato,
che appartiene ad una famiglia molto benestante e all’antica,
potrebbe decidere
di non sposarsela più. Mi domando che cosa c’entri
il fidanzamento di mia
sorella Loredana con la storia della nostra sfortunata cugina. Oltre
tutto Elvira
non vive nemmeno a Napoli, ma a Contursi, e non credo che abbia mai
incontrato
nessuno della nostra comitiva. Però, a pensarci bene, forse
è stato fatto
qualche pettegolezzo su di lei anche qui a Napoli ... allora
è possibile che anche
la famiglia del mio fidanzato lo abbia obbligato ad allontanarsi da me
per quel
motivo? ... Se è così lui mi ama ancora e prima o
poi riuscirò
a convincerlo a tornare!”
“Fine
della storia”, pensò mestamente Dolores, davanti a
quel diario stropicciato
dove da quel momento Elvira non aveva mai più scritto nulla.
Strano come i
ricordi e le emozioni della sua amica fossero in fondo simili ai suoi.
Anche
lei era stata un’adolescente grassoccia e complessata e
nonostante avesse solo
tredici anni aveva “perso la testa” proprio per lo
stesso ragazzo che aveva
fatto letteralmente impazzire Elvira. Anche lei aveva partecipato alle
stesse
feste, in qualità di amica delle sorelle minori, ma era
rimasta seduta in un
angolo, perché nessuno dei ragazzi si era mai sognato di
farla ballare.
Ricordava che una volta, per sembrare più adulta, aveva
messo ai piedi un paio
di scarpe con cinque centimetri di tacco, prese in prestito proprio da
Loredana,
e dopo aver indossato il vestitino a fiori rosa, romanticamente
infantile, che
la mamma le aveva comprato per l’occasione, aveva stretto la
vita in un’alta
cintura di raso beige che apparteneva ad un abito elegante di sua
madre,
appunto, nella
speranza di assumere un
aspetto un po’ più da adulta. Ma appena
entrò nella sala della festa quel
burlone di Mimmo disse, senza alcuna pietà, davanti a tutti,
“Gaia ha cercato
di nascondere la pancia sotto la cintura”! Marcello era
lì accanto, ma non
rise, come tutti gli altri. Al contrario, finse di non aver sentito e
cominciò
disinvoltamente a parlare d’altro. Poco dopo, Gaia (Dolores)
lo vide ballare
con Elvira e poi lo vide anche flirtare, per tutta la serata, con
quell’antipatica di Marisa, che si dava tante arie con i suoi
vestiti firmati.
In
quel momento il suono del telefono la fece trasalire, interrompendo
bruscamente
il corso dei suoi pensieri. Alzò lo sguardo verso il grosso
orologio della
cucina e si accorse che segnava le quattro di pomeriggio! Era stata
così
immersa prima nella lettura e poi nei suoi ricordi che non si era
accorta del
tempo che passava e non aveva né cucinato né
mangiato nulla.
“Pronto”?
“Ciao,
Gaia, scusami se mi sono dimenticato di avvertirti prima, ma non sono
ancora
ripartito da Caprioli perché i potatori stanno ancora
lavorando. A mezzogiorno
abbiamo mangiato i panini insieme. Conservami il pranzo che me lo
riscaldo
stasera quando torno”.
“Oh,
Alfonso, sì, va bene, ora metto tutto in frigo”,
mentì Dolores, per non
deludere il marito, e anche per evitare di dargli troppe spiegazioni,
poi si
affrettò a salutarlo perché a quell’ora
avrebbe già dovuto essere di nuovo a
scuola per la prima lezione del corso di recupero che il collegio dei
docenti
aveva imposto a tutti gli studenti che non avessero riportato la piena
sufficienza. Aveva ancora la giacca addosso e le scarpe ai piedi,
quindi
riprese in fretta la borsa e a passo svelto raggiunse il liceo, che per
fortuna
era a tre passi da casa sua. Per la prima volta in tanti anni non aveva
mangiucchiato ininterrottamente dall’una alle tre, anzi, era
digiuna dalle otto
del mattino e non aveva neanche un po’ di appetito.
Entrò
nell’aula di prima B e trovò una sola ragazza ad
aspettarla, Chiara De Marco.
Le domandò come mai gli altri non ci fossero e la ragazza
rispose che
l’indomani ci sarebbe stato il compito di greco, quindi
avevano preferito
restare a casa a ripetere le regole che la professoressa aveva spiegato
nelle
ultime lezioni. Dolores indovinò che Chiara era talmente
convinta di non poter
riparare in greco, perché ricordava bene che la collega
l’aveva classificata
impietosamente con due e tre, che aveva preferito tentare di recuperare
almeno
in inglese. Infatti, probabilmente la lingua straniera era stata una
delle sue
materie migliori, dove aveva faticosamente conquistato un quattro allo
scritto
e cinque all’orale. Dolores provava simpatia per quella
ragazzina che a sedici
anni pesava già più di lei, che ne aveva invece
cinquantacinque. Comunque, non
appena si era seduta in cattedra, e aveva aperto il registro, si era un
po’
rilassata, nel riprendere la routine quotidiana, e finalmente si era
anche
accorta che stava svenendo per la fame. Allora aprì la
borsa, dove conservava
sempre una riserva di cracker, saporiti e ipercalorici,
all’olio di oliva,
pomodoro e formaggio, e ne allungò un pacchettino
all’alunna dicendo:
“Ti
dispiace se mangiamo prima qualcosa? Oggi ho avuto degli impegni
imprevisti e
non sono tornata a casa per il pranzo”.
La
ragazza, che poco prima si era disperata, ritrovandosi da sola con
l’insegnante, pensando che in due ore avrebbe potuto
interrogarla sul programma
di tutto il primo quadrimestre, si rischiarò subito in volto
e accettò con
gratitudine quel diversivo inaspettato. Mentre sgranocchiava un
cracker, le domandò
se avesse mai assaggiato il Marsh Mallow e le confidò di
avere un’amica
americana che incontrava ogni anno al mare in costiera e le parlava
sempre di
quel particolare tipo di zucchero filato che piaceva tanto ai ragazzini
inglesi
e americani. Nell’ultima lettera le aveva anche promesso che
al suo ritorno in
Italia, l’estate successiva, gliene avrebbe portato un
pacchetto.
Intanto
Dolores pensava a quella povera ragazzina, che sarebbe uscita da scuola
alle
sei e probabilmente sarebbe rientrata a casa non prima delle sette,
perché
abitava abbastanza lontano dalla scuola, e a quell’ora
avrebbe dovuto tentare
di fare tutti i compiti per il giorno dopo, anche quelli di inglese.
Così si
offrì di aiutarla prima a fare i compiti di inglese per il
giorno dopo e poi
rivedere insieme qualche argomento di ripetizione. Chiara gliene fu
molto grata
e inaspettatamente, in assenza dei compagni, che evidentemente la
intimidivano,
cominciò a leggere in inglese il brano che era stato
assegnato per il giorno
dopo meglio della maggior parte dei suoi coetanei.
CAPITOLO
QUINTO
POESIE
D’AMORE
Il
giorno dopo era mercoledì e Dolores era libera, quindi se la
prese molto
comoda: fece un lungo bagno caldo con l’idromassaggio,
lavò i capelli, ma non
si vestì per uscire, invece indossò un morbido
pigiama pulito e andò, con in
mano il suo cappuccino bollente, ad esercitarsi al pianoforte. Intanto
pensava
a quanto lo aveva desiderato, invano, quel pianoforte, a dieci anni,
quando
andava con le amiche ai corsi pomeridiani di musica e canto. Il giorno
prima Elvira
le aveva fatto ricordare di quel famoso saggio ginnico a cui aveva
partecipato
in prima media, vergognandosi alquanto per la ciccia che fuoriusciva
dal
costume, che le maestre avevano scelto, uguale per tutte le bambine,
senza
tener conto del fatto che alcune fossero cresciute un po’
troppo in fretta, in
quell’anno scolastico.
Si
ricordò, come se fossero passati pochi giorni, di quanto
avesse invidiato Paola
D., che era stata scelta per cantare “La Spagnola”,
indossando un bellissimo abito
rosso con le rouches e ballando a tempo di musica. Lei, invece, era
stata
scelta, fra tutte, dalla maestra di teatro, per recitare un complicato
componimento che nessun’altra aveva saputo leggere
altrettanto bene. Ma quando
si era trattato di provare alla presenza del preside le era andata via
la voce
e un’altra ragazzina, Olga C., che pochi minuti prima non
aveva saputo
leggerlo, aveva chiesto di poter provare di nuovo e imitandola era
riuscita a
soffiarle il posto!
Beh,
almeno col pianoforte ultimamente era riuscita a riguadagnare un
po’ del tempo
perduto! Ricordava ancora quanto si fosse rattristata quando i corsi
erano
stati interrotti alla terza lezione perché
l’insegnante era stata trasferita in
un’altra scuola. Allora aveva espresso il desiderio di
frequentare un corso
privato, ma i genitori erano stati poco comprensivi, perché
avevano temuto che
la musica potesse distrarla dagli studi, quindi aveva dovuto rinunziare
per
sempre, o quasi, perché un paio di anni prima, a
cinquantatre anni, aveva
deciso finalmente di comprarne uno, e di iscriversi ad un corso per
principianti, ed ora era emozionata come una ragazzina quando le
riusciva di
suonare abbastanza bene “Per Elisa” di Beethoven o
l’Ave Maria di Schubert!
Quindi si esercitò per una buona mezz’ora, ma poi
si accorse che era tardi e
doveva vestirsi in fretta, perché aveva promesso a Liliana,
un’ex alunna dei
tempi in cui insegnava all’Istituto Professionale
Alberghiero, di aiutarla a
preparare l’esame di letteratura inglese per il primo anno di
università.
Mentre
aspettava, sorrise fra sé ripensando al primo compito in
classe che quella
ragazza le aveva consegnato alcuni anni prima. Una delle domande,
sull’uso
dell’imperfetto del verbo essere, era:
Come
renderesti in inglese la frase “Era domenica”?
Invece di tradurre “It was
Sunday”, Liliana aveva cercato su un dizionario la parola
“era” e aveva trovato
“age”, così aveva tradotto:
“Age Sunday”!
Qualcosa
di molto simile aveva fatto con un’altra frase, in cui doveva
dire ad un amico
inglese che abitava a Roma. Anche allora, cercò
“abito” sul dizionario e quindi
le domandò:
“Professoressa,
ma devo tradurre “abito” con
“dress” (abito da donna) o con
“suit” (abito da
uomo)?”
A
quell’epoca, Dolores non avrebbe mai pensato che quella
ragazza potesse
arrivare all’università, ma poi, pian piano, le
cose erano cambiate e Liliana
si era appassionata allo studio dell’inglese, fino a
diventare una delle sue
alunne migliori.
Giorni
prima l’aveva incontrata per la strada e le aveva confidato
che, provenendo da
un istituto professionale, era una delle poche, nel suo corso, a
trovare serie
difficoltà col programma di letteratura, anche
perché il corso monografico era
sulla poesia d’amore, a partire da Sir Thomas Wyatt e dagli
elisabettiani, che
ovviamente usavano una lingua alquanto diversa da quella attuale.
In
quel momento suonarono alla porta e Dolores andò ad aprire e
si trovò davanti
Liliana, una bella ragazza bruna, vivace e intelligente, dai capelli
ricci e
dagli occhioni nerissimi. Non era molto alta ed aveva qualche chiletto
di
troppo, però aveva fatto battere velocemente i cuori di
molti compagni di
scuola. Nei primi anni era stata una studentessa in
difficoltà, perché i
genitori, entrambi semianalfabeti, lavoravano duramente per mantenere
decorosamente
i tre figli e a lei, che era la prima, spesso toccava anche la cura
degli altri
due.
Cominciarono
a leggere un sonetto di Sir Thomas Wyatt, “Pace non
trovo”:
I
find no peace, and all my war is done;
I
fear and hope, I burn and freeze like ice;
I
fly above the wind, yet can I not arise;
And
nought I have and all the world I seize on (…)
Poi
lo paragonarono al sonetto CXXXIV del Petrarca, che era stato
indubbiamente
fonte di ispirazione per il poeta inglese:
Pace non
trovo, e non ho da far
guerra;
E temo, e
spero; et ardo e sono
un ghiaccio;
e volo sopra
‘l cielo, e giaccio
in terra;
e nulla
stringo, e tutto ‘l mondo
abbraccio (…)
Poi
passarono al
sonetto LXXV di Edmund Spenser:
One
day I wrote her name
upon the strand;
But came the waves and washed it away;
Again,
I wrote it with a
second hand;
But
came the tide, and made
my pains his prey.
Vain
man, said she, that
dost in vain assay
A
mortal thing so to
immortalize;
For
I myself shall like to
this decay,
And
eke my name be wiped out
likewise.
Not
so, (quoth I) let baser
things devise
To
die in dust, but you
shall live by fame;
My
verse your virtues rare
shall eternize,
And
in the heavens write
your glorious name.
Where
whenas death shall all
the world subdue,
Our
love shall live, and
later life renew.
Un
giorno scrissi il suo nome sulla spiaggia;
ma
vennero le onde e lo lavarono via;
di
nuovo, lo scrissi per la seconda volta;
ma
venne la marea e fece preda delle mie pene.
Uomo
vano, ella disse, che tenti invano
di
immortalare così una cosa mortale;
perché
io stessa allo stesso modo finirò,
ed
anche il mio nome sarà cancellato alla stessa maniera.
Non
così, dissi io, lascia che le cose più umili
decidano
Di
morire nella polvere, ma tu vivrai per fama;
i
miei versi renderanno eterne le tue rare virtù,
e
nei cieli scriveranno il tuo nome glorioso.
Dove,
quando la morte soggiogherà tutto il mondo,
il
nostro amore vivrà, …
“Professoressa,
come mi piace, quando leggete le poesie d’amore; anche la
volta scorsa, quando
parlammo di Romeo e Giulietta, mi ci sono appassionata molto di
più di quando
l’ha spiegato il professore
all’università!” disse Liliana, con
simpatica
spontaneità, e Dolores non aveva difficoltà a
crederle, perché anche a scuola,
quando spiegava le poesie d’amore, riusciva ancora, dopo
tanti anni, a
comunicare agli alunni le emozioni che non avevano mai smesso di
suscitare in
lei stessa.
Poi
Liliana andò via e Dolores si ritrovò,
all’improvviso, a pensare, con gli occhi
pieni di lacrime, a quando ella stessa, diciottenne, aveva scritto una
poesia
d’amore:
AMORE
E LUTTO
Sei forte e
sei robusto,
sei bello e
intelligente,
sei
padre e sei fratello,
mio
amico e mio amante.
Sono
madre e son figlia
del
mio unico fratello,
vorrei
esserti sorella.
Ti
cerco, son ferita,
guarisci
le mie piaghe.
Sei
sano e sei malato,
sei
vivo e sei morto.
Sei
qui sulla terra
Per
darmi conforto.
Ti
cerco nel cielo,
ci
sei, nel ricordo.
Da
quando ti ho visto
Non
sono più sola.
Accarezzo
il tuo viso,
ti
stringo le mani,
ti
tocco i capelli,
ti
bacio la fronte.
Ti
parlo di me,
mi
parli di te.
Insieme
piangiamo,
insieme
ridiamo.
Mi
guardi nel cuore
e
sai quel che provo.
Ti
guardo negli occhi
E
so quel che pensi.
Sei
padre e sei figlio,
sei
cane e sei gatto,
criceto
e coniglio,
sei
orsetto la notte,
sei
medico e farmaco.
Ti
penso di giorno,
ti
sogno di notte.
Ti
cerco e ti trovo,
sei
bello e son bella,
ti
amo e tu mi ami
ma
non ci sei più.
Sei
casa e focolare,
passeggiata
in riva al mare.
Sei
il canto degli uccelli,
sei
volo di farfalle,
sei
il fiume e la montagna,
sei
musica e poesia,
quadro
e fotografia.
Sei
l’arte e la natura,
con
te non ho paura.
Sei
cinema e teatro,
sei
abito e gioiello,
se
stringo la tua mano,
se
guardo nei tuoi occhi,
son
ricca senza soldi.
Sei
festa e sei la gioia,
il
ballo e l’allegria,
Natale
e Capodanno,
sei
Pasqua e compleanno.
Ti
amo e tu mi ami
Però
non ci sei più!
Sei
un corpo senza vita
Lapide
al camposanto
Anch’io
sono finita
Quel
giorno insieme a te.
L’aveva
dedicata al primo grande amore della sua vita, quello splendido
ragazzone,
forte e tenero, col quale era stata fidanzata per sei mesi, fino a
quando un
giorno lui aveva accettato il passaggio di un compagno sul motorino e
pochi
minuti dopo aveva trovato la morte contro un camion ad un incrocio.
Tante
volte Dolores aveva letto in classe la poesia di Spenser, ma non aveva
mai
messo in rapporto le due storie d’amore. In
verità, da tanto tempo credeva di
avere quasi rimosso i ricordi terribili di quel periodo della sua vita,
però
negli ultimi giorni il diario della sua amica, che era impazzita per un
amore
deluso, l’aveva indotta a riflettere che anche lei, in
qualche modo, era
impazzita dopo la morte del suo ragazzo. Perché in apparenza
si era fatta forza
e presto si era fidanzata e sposata con un altro uomo, di dieci anni
più grande
di lei, che allora le era sembrato gentile e comprensivo; ma in
realtà aveva
accettato, follemente, all’età di
vent’anni, di sposare un uomo che per lei
rappresentava più che altro un amico simpatico, non come ci
si aspetterebbe da
una ventenne innamorata, ma quasi come una vecchia zitella in cerca di
compagnia.
Poi
se ne era pentita mille volte, perché l’amico
simpatico e protettivo si era
prestissimo trasformato in un vecchio egoista, maschilista e
brontolone, e
mille volte era stata sul punto di lasciarlo, ma poi aveva sempre
chinato il
capo, per amore dei tre figli, come aveva sempre creduto, ma forse
anche perché
le sembrava di averlo, per certi versi, un po’ ingannato, nel
momento in cui,
ancora giovane ed inesperta, si era fidanzata con lui, provando un
sincero
affetto, ma non un amore appassionato e neanche una vera attrazione
fisica nei
suoi confronti.
Mentre
ripensava a tutti quei ricordi non lieti, che per tanti anni aveva
creduto di
essere, faticosamente, riuscita a seppellire nel dimenticatoio, si
avviò
mestamente verso la cucina perché era già molto
tardi e presto Alfonso sarebbe
tornato, affamato, come sempre.
Ma
in quel momento suonò il telefono: era Alfonso e le disse
che se non le
dispiaceva per quel giorno avrebbe fatto uno spuntino fuori con un
collega. A
Dolores non dispiaceva per niente, anche perché non aveva
ancora cucinato
nulla, ma si guardò bene dal dirglielo, perché il
marito non era molto
comprensivo e lei non era per niente dell’umore adatto per
una discussione,
così si limitò a rispondere: “Va bene,
ora telefono ad Elvira e magari andiamo
insieme a mangiare un panino ai giardinetti, ciao”.
Quindi
compose il numero di Loredana e chiese di Elvira, ma le risposero che
era fuori
con degli amici. Dolores era un po’ stupita, ma poi
pensò che non fosse così
strano che Elvira avesse ritrovato anche altri amici, oltre lei, quindi
si
limitò a dire che avrebbe avuto piacere se Elvira
l’avesse richiamata al
ritorno. La verità era che voleva dire all’amica
che aveva letto il diario e
quindi voleva anche restituirglielo. Ma Elvira non chiamò
più e quando Dolores
riprovò a cercarla, alcuni giorni dopo, le dissero che era
ripartita!
“Ripartita?”
rispose Dolores, preoccupata “E dov’è,
ora?”
“E’…
stata richiamata al lavoro” disse Loredana, con voce
esitante, perché
evidentemente sospettava che Elvira si fosse confidata con la vecchia
amica,
poi, visto che Dolores non aveva risposto nulla, aggiunse, con voce
più
convinta, “non ha avuto il tempo di salutarti, credo che
abbia provato a
chiamarti, ma non ha risposto nessuno, vedrai che si farà
viva appena
possibile”.
“Va
bene”, rispose Dolores, cercando di non far trapelare
l’ansia che le metteva
addosso quella strana notizia, “saluta tua madre da parte
mia”.
CAPITOLO
SESTO
CORRISPONDENZA
Qualche
settimana dopo, un mercoledì mattina, Alfonso
uscì a comprare il latte e tornò
anche con la posta che aveva appena preso nella cassetta.
C’era una lettera per
Dolores e il mittente era Elvira.
“Cara Dolores,
Sono certa
che hai letto il mio
diario, quindi avrai sicuramente capito che la persona che avevano
deciso di
internare ero io. Mi sembra di ricordare che io stessa lo scoprii
proprio quel
giorno, perché mentre stavo ancora scrivendo il diario
pensai di farmi una
doccia, vestirmi per bene e andare a comprare un gelato al bar, dove
forse
avrei potuto incontrare Marcello e provare a convincerlo che niente era
cambiato tra noi.
Allora entrai in bagno
e mi svestii, poi mi sembrò di sentire la sua voce che mi
chiamava dalla
traversa che era sotto la mia camera, proprio come aveva fatto in
quella famosa
domenica, quindi uscii di corsa dal bagno e volai fuori al balcone,
inseguita
da mia madre e mia sorella che cercavano invano di fermarmi.
Così mi affacciai
e guardai giù, ma non c’era nessuno. Un attimo
dopo entrambe mi raggiunsero e
mi tirarono dentro, gridando che se non avessi smesso di fare cose
assurde mi
avrebbero rinchiusa in un istituto, perché non ce la
facevano più a sopportare
la vergogna. Solo allora mi accorsi che ero completamente nuda e
sconcertata e
frastornata com’ero promisi che avrei fatto qualsiasi cosa
volessero da me
purché mi tenessero in casa con loro. Allora mamma disse che
il medico mi aveva
prescritto dei farmaci che mi avrebbero fatto riposare meglio la notte
e
sentire bene anche di giorno. Ovviamente, non chiedevo di meglio e
promisi che
mi sarei attenuta scrupolosamente alle prescrizioni. Quella sera stessa
presi
un paio di pillole, credo, poi dormii tutta la notte e anche buona
parte del
giorno seguente. Nei primi giorni dormivo troppo, ma poi cominciai a
svegliarmi
regolarmente al mattino e dopo qualche settimana, su consiglio del
medico,
tornai anche a scuola. Dopo di allora, a volte mi capitava di trovare i
miei
oggetti spostati, ma mi guardavo bene dal dirlo, perché
sapevo che non mi
avrebbero creduto. Ricordo anche che una sera, dopo cena, mamma mi
aveva
chiesto di pulire i fornelli della cucina e li avevo strofinati
così bene da
farli risplendere come nuovi, ma la mattina dopo mamma si mise a
gridare che
non li avevo puliti per niente. Andai in cucina ed erano davvero di
nuovo tutti
sporchi. Chi mi aveva fatto quello scherzo crudele? Per evitare
discussioni, mi
rassegnai a pulirli di nuovo, ma questa volta non vennero splendenti
come la
sera prima; restarono opachi e graffiati. Eppure mi sembrava di avere
usato lo
stesso detersivo! Per il resto, non mi sentivo tanto male,
però quando studiavo
non riuscivo a concentrarmi e i miei voti continuavano a peggiorare.
Alla fine,
come tutti in famiglia ci aspettavamo, fui respinta, ma i miei dissero
ad amici
e conoscenti che ero stata promossa. Nell’estate successiva
mi mandarono al
paese da una zia che viveva da sola e non ricordo di aver fatto altro
che
prendere le pillole e dormire.
Quando
tornai a Napoli ripresi la
scuola, ma di quell’anno non ricordo quasi nulla, tranne il
fatto che alla fine
fui bocciata di nuovo e di nuovo raccontammo a tutti che ero stata
promossa.
Però una signora impicciona che abitava nel palazzo
andò a vedere i quadri e
disse la verità a tutti quelli che conosceva. Anche
nell’estate successiva
andai dalla zia al paese, ma mentre ero lì smisi di nascosto
di prendere le
pillole perché avevo sentito alla radio che gli psicofarmaci
facevano
ingrassare … Una notte mi svegliai sentendo i ladri al piano
di sotto e corsi
in cucina a prendere un grosso coltello per la carne, poi restai
immobile in
cima alle scale, ma non c’era più nessun rumore.
In quel momento mia zia si
alzò e mi vide col coltello in mano. Allora se lo fece dare
e mi promise che
sarebbe andata lei a vedere al piano di sotto, e così fece,
ma non trovò
nessuno. Il giorno dopo arrivarono mio padre e mia madre e mi
riportarono a
casa. Però dopo qualche giorno decisero che dovevo andare a
curarmi per un po’
in quella clinica in Toscana e quella volta non riuscii a convincerli
che non
ce n’era bisogno.
Lì
era peggio di un carcere,
c’erano tante persone strane che gridavano di giorno e di
notte. All’inizio non
mangiavo più, piangevo e supplicavo tutti di farmi tornare a
casa, ma nessuno
mi ascoltava. Poi, dopo non so più quanto tempo, un giovane
psichiatra
volontario, credo, cominciò a parlare con me regolarmente
una volta a
settimana. All’inizio mi era antipatico e anch’io
ero convinta di essergli
odiosa, allora perché continuava a cercarmi? Se era anche
volontario, come
dicevano tutti, avrebbe potuto scegliere un’altra persona da
inserire nel
gruppo dei suoi protetti, da visitare regolarmente. Invece scelse me, o
forse
gli fui imposta dai capi, non lo so. Spesso litigavamo, e ci lasciavamo
arrabbiatissimi. Beh, almeno io lo ero e pensavo che lo fosse anche
lui. Però
un giorno mi disse che, se lo volevo, secondo lui, presto avrei potuto
trasferirmi in un altro padiglione, dove alcuni volontari, credo,
tenevano
corsi di italiano, informatica, disegno, lingue, cucina e ginnastica.
Lì si
poteva scegliere liberamente di partecipare o meno, ma la cosa
incredibile era
che per alcune ore, al mattino, gli abitanti di quell’ala
dell’edificio
sarebbero stati liberi di uscire per il paese! Da allora cominciai a
considerarlo il mio più caro amico e mi ripromisi che non lo
avrei deluso per
avermi accordato la sua fiducia. Dopo mi sembrò che fossimo
davvero diventati
amici, perché non solo io gli raccontavo tutto di me, dai
sogni della notte a
quello che avevo fatto durante il giorno, ma anche lui mi parlava
liberamente
di sé e della sua famiglia! Inutile dire che presto mi
innamorai profondamente
di lui, anche più profondamente di quanto avessi mai amato
Marcello, ma mi
guardai bene dal dirglielo, anche se sono sicura che lui se ne era
accorto.
Sapevo che il mio amore era senza speranza, perché lui era
sposato e aveva
anche tre bambini, poi ero certa che uno psichiatra e una matta non
avrebbero
mai formato una coppia. Così mi limitavo ad amarlo in
silenzio e senza
speranza. Però per amore cominciai a curare un po’
il mio aspetto: almeno, a
lavarmi più spesso, intendo, e a pettinarmi i capelli. Poi
chiesi a mia madre
di mandarmi qualche abito decente da casa, perché i miei
erano macchiati e
strappati, e cominciai ad uscire al mattino. Le prime volte restavo
fuori solo
per pochi minuti, perché avevo paura di
quell’ambiente nuovo e sconosciuto, poi
mi sembrava che la gente del paese mi guardasse con una strana
curiosità
malevola, evidentemente sapevano da dove venivo. Poi, piano, piano,
cominciai a
non farci più caso e a godermi le mie passeggiate, sempre
più lunghe. Quando
ero dentro, provai a frequentare un po’ tutti i corsi.
All’inizio lo facevo
solo per farmi apprezzare dal mio amico, ma poi mi accorsi che mi
interessavano
davvero. Dopo essere stata una pessima studentessa, lì mi
sentivo, per la prima
volta in vita mia, la prima della classe, o quasi. Dopo alcuni anni, mi
domandarono se fossi interessata a trasferirmi, con quattro o cinque
compagne
di sventura, più un’assistente e una volontaria,
in una casa che si trovava in
un normale condominio nella città vicina, che distava circa
dieci chilometri.
Dissi che volevo pensarci un po’. In realtà ero
entusiasta dell’offerta, ma
temevo di non rivedere più il mio amico. Così
gliene parlai e mi disse che lui
abitava proprio in quella città e aveva lo studio
esattamente nel palazzo di
fronte alla casa dove sarei andata ad abitare e che nella casa ci
sarebbe stato
anche un computer collegato ad internet, quindi avrei potuto mandargli
delle
e-mail tutte le volte che avessi avuto bisogno di lui e lui mi avrebbe
risposto, magari non subito, ma appena avesse avuto un po’ di
tempo. Poi, in
caso di emergenza, avrei potuto anche telefonare e chiedergli un
appuntamento
allo studio e lui avrebbe fatto di tutto per dedicarmi almeno un
po’ di tempo.
Intanto i miei genitori si erano adoperati per farmi avere una piccola
pensione
di invalidità, quindi, pensavo, avrei anche potuto
permettermi di pagarlo, magari
una volta al mese. Per la prima volta, avevo perfino un po’
di soldi in banca,
perché mio padre era morto da poco e nel momento in cui
avessi accettato di
trasferirmi in quella casa sarei anche entrata in possesso
dell’eredità. Così
cominciai una nuova vita. Devo dire che non appena i medici diedero il
nulla
osta perché rientrassi in famiglia mamma si offrì
di venirmi a prendere e
riportarmi a Napoli, ma rifiutai, perché mi ero affezionata
alle persone con le
quali avevo trascorso tutti quegli anni di sofferenza.
Ora sono di
nuovo in Toscana, per
qualche giorno, per fare accertamenti e controllare la terapia. Avrei
potuto
farlo a Napoli, ma ho scelto di tornare qui, dove conosco tutti, invece
di
cominciare a frequentare il centro di igiene mentale di Napoli,
perché mi
faceva paura l’idea di dover ricominciare tutto daccapo con
degli sconosciuti.
Ti ho
mandato questa lettera per
posta, invece che per e-mail, perché dove abito ora
c’è un computer e una
stampante, ma non c’è il collegamento ad internet.
Non so se
tornerò presto a
Napoli, perché mi hanno proposto di lavorare per le altre
persone che hanno
sofferto come me e forse accetterò, però
tornerò di tanto in tanto, nei periodi
festivi, e mi farà sempre piacere di rivederti. Spero che
mia sorella la smetta
di dire che sono in America, perché poi quando torno le
persone mi fanno tante
domande e non so mai cosa dovrei rispondere!”
Dolores
aveva letto e riletto quella lettera. All’inizio il suo
sguardo era triste e
assorto, mentre ripensava a quanto doveva essere stata dura la vita per
quella
ragazzina ammalata. Ma poi si era rasserenata e gli occhi le
sorridevano quando
si avvicinò al suo computer e scrisse, tutto d’un
fiato:
“Carissima
Elvira,
sono felice
che tu stia bene, e
quando dico bene, intendo proprio bene, bene, bene! Non lo so cosa ti
sia
accaduto a sedici anni, né perché tu possa avere
avuto tutte quelle strane
allucinazioni di cui parli nel diario, ma dalla tua lettera, che ho
appena
ricevuto, posso capire che ora non hai assolutamente nulla. Devi solo
convincerti che sei una persona perfettamente normale e che puoi fare
tutto
quello che vuoi. Se non fossi abbastanza
sicura che negli anni sessanta a Napoli la droga non
esisteva ancora, e
che d’altra parte tu frequentavi le stesse persone che
conoscevo anch’io e che,
oserei dire, erano a prova di bomba, penserei che ti avessero fatto
prendere
qualche allucinogeno e magari della cocaina, che avrebbe potuto
impedirti di
dormire la notte. Ti ricordi, per caso, se avevi consultato qualche
strano
medico, o sedicente tale, che ti avesse indotta a prendere delle
pillole per
dimagrire? Onestamente, non so se a quell’epoca si usassero
già le famigerate
anfetamine, o qualcosa di simile. In quegli anni credo che siano uscite
le
benzodiazepine. So che su questo tipo di farmaci ora le opinioni degli
“addetti
ai lavori” sono molto contrastanti, anche se alle dosi giuste
non sono
considerati tanto pericolosi dalla maggior parte degli specialisti.
Però tu
allora eri giovanissima, quindi forse avrebbero potuto arrecarti danno,
se le
avessi prese per sbaglio. Magari le avevano prescritte a tuo padre, che
aveva
appena avuto un ictus, o a tuo nonno. Non riesco a immaginare quali
farmaci si
dessero a quell’epoca alle persone ammalate di Alzheimer.
E’ possibile che tu
abbia preso per errore degli psicofarmaci, credendo che fossero per
l’influenza, o per la tosse? Se così fosse, non me
la sentirei di escludere che
su una ragazza molto giovane potessero avere avuto un effetto
imprevedibile,
specialmente se anche le dosi e le modalità di assunzione
fossero state
totalmente sbagliate. Mi sembra di ricordare che tu soffrivi di asma.
Immagino
che se avessi preso per mesi degli psicofarmaci scambiandoli per le tue
pillole
di antistaminico e poi avessi smesso all’improvviso, allora
potresti avere
avuto qualche effetto “rebound”.
Forse,
più di me, il tuo amico
psichiatra sarebbe adatto a darti qualche spiegazione plausibile, anche
perché,
da quello che mi scrivi, immagino ti abbia vista per molti anni.
Il tuo
diario è al sicuro nella
mia cassaforte, insieme con i miei gioielli, però potrei
mandartelo, se credi,
così che tu possa farlo leggere anche a lui. Di una cosa
sono certa ed è che se
mai tu sia stata ammalata ora non lo sei più. In
verità, lo avevo già capito
fin dal primo giorno in cui ci fermammo a chiacchierare sulla panchina
in
piazza e ne ebbi conferma quando venisti a pranzo a casa. Ma suppongo
di non
essere la prima a dirtelo; sono certa che tutto lo staff medico che ti
segue ti
abbia ampiamente rassicurata al riguardo.
Fammi sapere
se ti devo spedire
il diario.
Con affetto,
Dolores”.
Pochi
giorni dopo, Dolores trovò nella posta la risposta della sua
amica, ma il tono
di questa lettera era più mesto rispetto a quello della
precedente:
“Cara Dolores,
Non
ricordavo di non avertelo
detto: il mio amico non c’è più da
tanto tempo. Morì dieci anni fa,
all’improvviso, per un infarto. Beh, in realtà la
morte non fu proprio
improvvisa, perché io lo vidi, una volta, nel suo studio,
dopo l’infarto. Poi
la settimana successiva non venne all’appuntamento,
così provai a chiamarlo sul
cellulare, ma non rispose, poi, qualche ora dopo, mi
richiamò e mi disse che si
era sentito male ed era stato ricoverato di nuovo in ospedale, dove
avrebbe
dovuto restare ancora per qualche settimana. Avrei tanto voluto andare
a
trovarlo, ma me ne mancò il coraggio, anche
perché ero convinta che non me lo
avrebbero permesso. Lo chiamai ancora, di tanto in tanto, per sapere
come
stava, e un bel giorno mi diede di nuovo appuntamento nel suo studio
per il
mercoledì successivo.
In quella
settimana feci uno
strano sogno, in cui mi sembrava di aver partorito un bambino,
però lui non
stava bene, era troppo piccolo e magro, tremava di freddo e quasi non
respirava. Allora lo avevo tenuto al caldo sulla mia pancia e lo avevo
accarezzato e massaggiato a lungo, finché non aveva ripreso
colore, e calore, e
si era riaddormentato sul mio petto, respirando regolarmente.
Quando
glielo raccontai, lui non
disse nulla, ma non mi sembrò tanto contento: aveva capito
che dopo essermi
sentita per tanto tempo un po’ come una sua figlia, un
po’ come la sua
sorellina minore, per la prima volta ero io a sentirmi materna nei suoi
confronti e a volerlo in qualche modo proteggere e evidentemente aveva
qualche
difficoltà ad accettare
quel nuovo ruolo
.
Quando ci
salutammo, lui chiuse
lo studio a chiave, così mi resi conto che ci era andato
solo per me, perché
non c’era stato nessun altro paziente prima e non ce ne
sarebbe stato nessun
altro dopo.
Quella notte
feci un altro strano
sogno, in cui ero uscita per la strada con il mio grosso gatto grigio
(non ne
ho mai avuto uno, ma nel sogno ce l’avevo) e mi ero
dimenticata di riportarlo a
casa con me tornando. Poi ero uscita di nuovo e lo avevo cercato invano
dappertutto
e alla fine qualcuno mi aveva detto che quando i gatti spariscono
è perché sono
morti.
Non ho mai
avuto l’occasione di
raccontargli quel sogno perché non l’ho rivisto
più. Il mercoledì successivo lo
chiamai al telefono per domandargli conferma del nostro appuntamento,
ma lui mi
rispose:
“Credevo
che mia moglie ti avesse
avvertita: io sono di nuovo in ospedale”.
“Mi
chiamerai tu quando
riprenderai a fare studio, vero”?
“Sì,
ti chiamerò io”. Ma la sua
voce non sembrava per niente convinta, allora insistetti:
“Ma
ora come stai”?
“Sto
… mi … glio … rando”. Questa
volta la sua voce era soffocata, non so se dal pianto o da una strana
risata
ironica. Due giorni dopo, in preda all’ansia, riprovai a
chiamare, ma non
rispose. Provai ancora, ma il cellulare era sempre spento. Mi ricordai
che una
psicologa del nostro staff lo conosceva bene, quindi la chiamai per
chiederle
notizie. Mi disse che lui stava molto male e che neanche i suoi
familiari
rispondevano più al telefono.
Le dissi
che in passato avevo conosciuto una delle sue sorelle, che insegnava
italiano,
come volontaria, nel nostro istituto e che avrei provato a cercare il
suo
numero sull’elenco telefonico. Ma la psicologa mi rispose che
avrei fatto
meglio a non disturbare i familiari “in quei
momenti”. Il giorno dopo sentivo
terribilmente la sua mancanza e pensai che forse avrei potuto
collegarmi ad
internet, dove ricordavo che aveva una rubrica in cui dava consigli
tramite
e-mail. Lì avrei potuto leggere le sue parole e fingere di
averlo vicino per un
po’. Io non avevo mai usato quell’indirizzo e-mail
prima di allora, perché mi
aveva dato quello suo, privato, quindi digitai il suo nome e cognome e
la
città, e fu così che trovai, per prima cosa, il
trafiletto di un giornale
locale, in cui si diceva che era morto e che il funerale era stato
fatto il
giorno prima, di mattina. Quindi la sera prima la psicologa sapeva
già tutto,
ma aveva ritenuto che fosse meglio per me abituarmi piano, piano
all’idea di
perderlo. Inutile dire che dopo caddi in uno stato di prostrazione
profonda,
che durò molti mesi, forse anni, e che ritardò
notevolmente il mio ritorno alla
normalità. A dire il vero, a volte mi sembra che
quest’ultima, tremenda,
delusione non l’ho mai superata del tutto e che la mia vita
abbia avuto uno
scopo solo in quel paio d’anni in cui lui aveva lo studio di
fronte a casa mia …
Dolores
non riuscì a leggere oltre, perché gli occhi le
si riempirono di lacrime,
ripensando, ancora una volta, al primo amore della sua vita, quel
ragazzone
forte, dolce e sensibile, che le era sembrato straordinariamente bello
perfino
da morto, quando lo guardava, sbigottita, in quella stanza gremita di
gente
venuta da chissà dove, e le sembrava che si fosse
addormentato sorridendo, come
sempre, però tutti intorno piangevano, disperatamente
…
Poi
si riprese, con uno sforzo, finì di leggere la lettera
dell’amica e di getto le
rispose, confidandole, a sua volta, le proprie sofferenze, delle quali,
per
tanti anni, non aveva praticamente mai fatto parola a nessuno. Ma
forse,
pensava, cinquantacinque anni sono un’età giusta
per fare dei bilanci sulla
propria vita ... Forse stava un po’ cadendo in depressione,
avendo da poco
superato la menopausa, perché ora sentiva di non avere
più una vita davanti e
quindi da un po’ aveva cominciato a rifugiarsi nel passato,
come spesso fanno
le persone anziane ... Di sicuro, in tutto questo, non le aveva giovato
l’essere figlia unica, né l’aver visto
morire, nel giro di pochi anni, prima il
padre, poi la madre. Erano anziani, è vero, l’uno
era morto a ottantaquattro
anni, l’altra a ottantasette, però evidentemente,
come molti figli, non era ancora
pronta a perderli.
In
quel momento sentì il bisogno di andare a riprendere, da un
cassetto della
camera da letto, il diario di sua madre, che sorprendentemente aveva
trovato,
nel suo comodino, pochi giorni dopo la sua morte. Allora lo aveva letto
e aveva
scoperto, per la prima volta, che quella vecchietta magra, pallida e
introversa, moralmente molto severa e piuttosto avara di coccole, in
pratica
aveva vissuto solo per lei e per i suoi figli. Poi non lo aveva mai
più aperto,
perché ogni volta che ripensava a sua madre non poteva fare
a meno di sentirsi
in colpa per averle dato ascolto ed averla riportata a casa
dall’ospedale,
forse, troppo presto, dopo l’intervento di protesi
dell’anca. Così, mentre
sembrava che tutto stesse andando per il meglio, una mattina, dopo una
notte
insolitamente tranquilla, in cui aveva dormito sodo anche lei, senza
essere
stata chiamata neanche una volta, l’aveva trovata immobile e
gelata nel suo
letto, nonostante fosse il nove di agosto!
Cominciò
a leggere, un po’ a caso:
01/01/1996
“Oggi
verrà mia figlia ..., spero
di sentirmi un po’ più sollevata! ...
02/01
…
E’ stato terribilmente faticoso
occuparmi delle faccende, ma poi è venuta la mia nipotina,
Francesca, e per un
po’ mi sono dimenticata di tutto ...
04/01
…
E’ una giornata molto fredda,
ma c’è il sole ... Poi è venuta mia
figlia e ha portato con sé una ventata
gioiosa! ...
05/01
…
Questa notte verrà la befana ed
io le assomiglio tanto! ...
…
Stasera è venuta mia figlia,
con la mia bella nipotina, Francesca. Si sono trattenute poco
perché dovevano
fare delle spese, ma la loro presenza è stata come un raggio
di sole, in questa
casa triste e solitaria! ...
28/01
…
Stasera è venuto mio nipote,
Antonio,… gli voglio un gran bene. ...
…
sono preoccupata per Miriam,
che ha la febbre alta …
…
ora tutti e tre sono molto
impegnati, Antonio e Miriam frequentano
l’università e Francesca il liceo
artistico . Come sono cresciuti in fretta! Quando erano piccoli, e
abitavano al
piano di sotto, usavano uno sgabello per bussare alla mia porta! ...
11/4/
98
…
mio marito ci lasciò per sempre
lo scorso febbraio, ora Miriam abita qui con me … le voglio
un bene dell’anima,
senza di lei non sarei sopravvissuta! ...
A
quel punto suonò insistente il telefono, così
Dolores ripose in fretta il
diario nel cassetto e si affrettò a rispondere.
CAPITOLO
SETTIMO
SOLIDARIETA’
E AMICIZIA
At
telefono, Dolores aveva parlato con sua figlia, che le aveva chiesto se
voleva
scrivere dei racconti sul tema dell’amicizia nei confronti di
persone in
condizioni di svantaggio, perché stava preparando un
concorso a scopo benefico.
Aveva
risposto che ci avrebbe pensato, ma in realtà
l’idea non l’entusiasmava tanto,
perché ricordava che l’anno precedente aveva
partecipato con due racconti allo
stesso concorso, che quella volta era sulla solidarietà, e
non aveva riscosso
molto successo da parte della giuria, che ora praticamente sarebbe
stata la
stessa.
Intanto
che ci pensava, quasi meccanicamente era andata a riprendere la copia
dei
racconti dell’anno precedente, che conservava nello stesso
cassetto, insieme
col diario di sua madre, e aveva provato a rileggerli, dopo un anno,
come per
vedere se le piacevano ancora o se veramente, passato il primo
entusiasmo, non
sembravano più così interessanti neanche a lei
stessa. In fondo erano stati il
suo primo tentativo di scrivere qualcosa, dopo i temi del liceo!
Il
primo era intitolato “La nomade” e forse quel
titolo era già di per sé una
condanna all’insuccesso, perché ogni tentativo di
far riconciliare la società
con i nomadi che ospita, malvolentieri, sembra essere sempre destinato
a
fallire, oggi più di ieri!
In
quel racconto, Dolores aveva parlato, in terza persona, e con qualche
piccola
modifica, di un episodio che le era accaduto davvero, tempo prima:
“Era una bella mattina d’autunno, il cielo
era azzurro e faceva ancora caldo. Come ogni giorno, Alberto e Miriana,
due
anziani coniugi, pensionati da pochi mesi, avevano fatto la loro breve
passeggiata a Lungomare. Poi erano tornati al parcheggio, a riprendere
la loro
vecchia macchina sportiva, che era stata rossa fiammante, ma adesso era
un po’
graffiata di qua e di là, un po’ come loro, che
avevano avuto rispettivamente
la barba nera e i capelli d’oro, ma ora l’una era
bianca e gli altri erano di
uno strano colore rossiccio. Anche molte altre cose erano cambiate:
Alberto era
stato piuttosto alto e snello, ma ora sembrava quasi piccolo di
statura, da
quando il mal di schiena lo costringeva a camminare un po’
chino. Miriana in
tutti quegli anni aveva visto quasi raddoppiare il suo peso. Si
avviarono
dunque stancamente verso la loro macchina e intanto guardavano, senza
porvi
molta attenzione, una giovane donna nomade, seduta a terra accanto alla
cassa
automatica dove avrebbero dovuto pagare il biglietto. Intorno a lei
saltellava
un grazioso bimbetto di due o tre anni e al suo seno succhiava una
neonata
semiaddormentata. Aveva gli occhi socchiusi e il visino pacifico come
quello
che a volte hanno i cuccioli di gatto quando sono sazi e contenti.
La ragazza
non chiese esplicitamente
del danaro, ma si limitò a salutare i due coniugi, col suo
accento straniero.
Miriana rispose al saluto e le sorrise. Alberto non ritenne fosse il
caso di
rispondere a sua volta, però insieme con l’euro
per il parcheggio tirò fuori
dalla tasca alcune monetine da pochi centesimi e gliele porse. Se era
rimasta
delusa, la ragazza non lo diede a vedere, perché
ringraziò con un sorriso.
Allora Miriana aprì la borsa, prese una moneta da due euro e
gliela diede.
Dalla faccia di Alberto capì che poi in macchina avrebbe
dovuto ascoltare un
lungo discorso sul fatto che loro due non potevano permettersi di
sprecare il
danaro perché non avevano più gli stipendi di
prima e le loro pensioni ora
bastavano appena per i bisogni della famiglia.
Ma per
Miriana era quasi impossibile
passare davanti ad un mendicante e non porgergli qualcosa. In
verità, non era
sempre stato così, anzi, in passato si adirava con la madre,
che le chiedeva
sempre aiuto per pagare le bollette, però quando usciva di
casa si riempiva le
tasche di banconote da mille lire da distribuire ai poveri per la
strada. Però
poi la mamma era morta e lei aveva finito col ritenersi in obbligo di
“raccoglierne il testimone”.
Intanto la
fila alla barriera si
era diradata ed era il loro turno ad uscire con la macchina dal
parcheggio.
In quel
momento Alberto vide la
giovane nomade che si avvicinava di corsa al suo finestrino, facendogli
cenno
di fermarsi ed aprire.
“Che
altro vorrà ancora da noi?”
brontolò, seccato.
“Questi
sono suoi, Signore”,
disse la ragazza, porgendogli gli occhiali che non si era reso conto di
aver
lasciato cadere mentre pagava il parcheggio.
“Grazie”,
borbottò Alberto,
imbarazzato, vergognandosi di se stesso.
La ragazza
tornò lentamente al
suo posto, seguita dai figli, e ricominciò a salutare tutti
i passanti,
apparentemente non troppo sconcertata per il fatto che molti non le
rispondessero affatto.
Intanto
l’automobile procedeva, a
scatti, nel traffico bloccato dell’ora di punta e Miriana
pensava a quanto
l’atteggiamento di quella ragazza nomade, che aveva fatto lo
slalom tra le auto
del parcheggio affollato, con i suoi due bambini, per restituire un
paio di
occhiali ad uno sconosciuto, fosse più solidale di quello
delle persone, più
ricche e più fortunate, che avrebbero dovuto accoglierla,
con la sua sfortunata
famiglia, nel loro paese”.
Il
secondo racconto era intitolato VUCUMPRA’ ed aveva avuto un
po’ più successo,
essendosi classificato tra i primi dieci, però comunque era
dedicato ad una
categoria di persone che probabilmente non sono tanto simpatiche alla
maggior
parte di quelli che si seccano (magari non sempre a torto) di essere
interrotti
continuamente dalle richieste, a volte effettivamente insistenti, delle
persone
bisognose.
Anche
questo era ispirato ad un episodio che era accaduto davvero a Dolores
alcuni
anni prima e che l’aveva indotta a riflettere un
po’ sui propri pregiudizi nei
confronti degli immigrati più poveri e meno bene integrati:
“Carol era una giornalista e scrittrice,
anche abbastanza conosciuta. Un giorno le era stato chiesto di scrivere
un
racconto breve sul volontariato e la solidarietà. A dire il
vero, si sentiva un
po’ presa in contropiede, perché si vergognava di
ammetterlo, ma non si era mai
interessata molto a questi argomenti. Ci pensò a lungo,
cercando, nella sua
mente, il ricordo di qualche volta in cui avesse partecipato ad una
buona
azione. Ma non le veniva in mente niente, a parte le banalissime
partecipazioni
alle collette parrocchiali e le elemosine che aveva dato per la strada
ai
poveri più insistenti, restando spesso col sospetto di
averlo fatto, più che
altro, per “toglierseli di torno”.
Poi le venne
un’idea luminosa:
una volta aveva ricevuto solidarietà, da persone che forse
sarebbero state
bisognose di riceverne.
Era successo
tanti anni prima,
negli anni ’80. Aveva i tre figli piccoli ed era stata in
vacanza a Londra, per
quindici giorni, in agosto.
Al ritorno,
il suo aereo era
atterrato a Roma con parecchie ore di ritardo, per cui
l’intera famiglia, con
relativi bagagli, si era vista costretta (avendo perso il treno
prenotato), a
salire, in piena notte, su un treno interregionale sovraffollato. Non
solo i
posti a sedere erano tutti occupati, ma anche i corridoi e perfino i
bagni
erano ingombri di enormi valigie, la maggior parte delle quali
appartenevano ad
un gruppo di extracomunitari che dopo aver lavorato in Italia in estate
stavano
rientrando nei paesi d’origine.
Molte
persone esprimevano
apertamente la loro disapprovazione nei confronti degli africani e dei
loro
bagagli ingombranti. Ma Carol cominciò per caso a parlare
con uno di loro e
scoprì che al suo paese si era laureato in filosofia, poi
aveva deciso di
emigrare per trovare un buon posto di lavoro, ma giunto in Italia aveva
avuto
una sgradita sorpresa riguardo la sua laurea, che purtroppo non era
riconosciuta nella maggior parte dei paesi europei, quindi, per poter
mantenere
la promessa di mandare dei soldi alla sua famiglia in Africa aveva
accettato di
svolgere lavori servili in Italia per tutta l’estate. Alcuni
“vucumprà” si
unirono alla conversazione, così Carol e suo marito
scoprirono che molti di
loro erano decisamente più intelligenti e più
colti di quanto il loro misero
lavoro in Italia avrebbe potuto far supporre.
Alla fine il
treno si fermò a
Napoli alle tre di notte e Carol e suo marito rischiarono di non poter
scendere, con tutti i loro bagagli, tanta era la folla che ingombrava i
corridoi, anche perché il loro vagone, essendo
l’ultimo, si era fermato oltre i
binari della stazione. Ma alla fine arrivarono sani e salvi sul
marciapiede,
appena in tempo, prima dell’arrivo di un altro treno in
direzione opposta,
grazie alla mobilitazione di quel gruppo di giovani stranieri che li
avevano
aiutati a scendere, con i tre bambini e le cinque valigie”.
CAPITOLO
OTTAVO
ANCORA
I NOMADI?
La
sera prima Dolores era andata a letto pensando all’amicizia e
quasi
inspiegabilmente quella notte aveva sognato la nonna materna, come se
fosse
ancora viva, e lei bambina, nella vecchia, grande casa al paese, in
provincia
di Avellino, da cui mancava oramai da tempo immemorabile.
Così, appena sveglia,
dimentica degli impegni quotidiani (ma per fortuna era ancora presto,
quindi
forse dopo avrebbe avuto il tempo di rimediare), cominciò a
scrivere di getto
alcuni dei ricordi della sua infanzia, che in qualche modo erano
collegati sia
alla cara, lontana, memoria della nonna, sia al tema
dell’amicizia:
“Da piccola ho avuto poche occasioni di
incontrare Nonna Gaia, perché abitava in un paese a
trentacinque chilometri
dalla mia città e con i mezzi a disposizione negli anni
cinquanta era quasi
come se abitasse all’estero. Il suo aspetto fisico non era
attraente: il suo
viso rugoso dimostrava anche più dei settant’anni
che suppongo avesse a
quell’epoca, i suoi capelli erano radi e di uno strano colore
tendente al
grigio scuro. Il suo fisico risentiva delle otto gravidanze, peraltro
portate
felicemente a termine; vestiva solitamente di nero e
l’artrite la costringeva a
camminare, con difficoltà, sempre in pantofole. Un velo di
stanchezza offuscava
i suoi occhi azzurri. Però Mamma, che poteva ricordarla
venticinquenne, mi
parlava di lei quasi come della principessa di una bella favola: Nonna
Gaia era
nata in una famiglia dell’alta borghesia della provincia di
Avellino, aveva
studiato in collegio fino a diciotto anni ed era bella, alta, bionda,
ben
formata, con gli occhi azzurri e con la pelle chiara. Appena tornata
nel paese
natio, era stata vista da un giovane di un paese vicino, che era quasi
un vero
principe azzurro: si chiamava Domenico e apparteneva davvero ad una
famiglia
principesca, anche se ad un ramo cadetto e piuttosto squattrinato.
Domenico si
innamorò perdutamente
di Gaia, che presto imparò a ricambiarne i sentimenti con
pari intensità.
Entrambe le famiglie videro di buon occhio quell’unione e i
due giovani si
sposarono dopo solo sei mesi di fidanzamento.
Gaia
andò a vivere nel palazzo
del suo principe, che era molto grande e riccamente arredato, anche se
non era
tutto a sua disposizione, perché era abitato
dall’intera famiglia, suocera
compresa.
Le terre che
Domenico possedeva
davano prodotti sufficienti affinché la nuova famiglia, che
subito cominciò a
crescere, potesse vivere serenamente.
Ma nel
millenovecentoquindici la
guerra cominciò a rendere tutto molto più
difficile e dopo più nulla ritornò
mai come prima.
Nonostante
le ristrettezze
economiche, dovute alla guerra e alle penose carestie che la seguirono,
la
famiglia, che ogni due anni, puntualmente, si arricchiva di un nuovo
membro,
poteva ritenersi ancora abbastanza fortunata, perché anche
nei momenti più bui
(quando a pranzo c’era a stento il primo piatto, o quando il
raccolto era
appena andato distrutto da calamità naturali, o da razzie di
predatori
stranieri), nel tranquillo paese di provincia, continuava a godere del
buon
nome dei suoi membri e del credito necessario a sopravvivere.
Diventate
giovani donne, mamma e
le sue sorelle cominciarono a frequentare le famiglie più
importanti del
circondario, alcune delle quali erano anche blasonate, come i Conti C.
e i
Baroni P., però spesso, in quelle case di lusso, si
vergognavano dei loro
poveri abiti lisi.
Nonna Gaia,
invece, non si
vergognava mai e imperturbabile riceveva, nello stesso salotto, e con
lo stesso
sorriso affettuoso, le baronesse, le mendicanti del paese e le zingare
di
passaggio. A tutte offriva, con la stessa semplicità, il
poco cibo che aveva in
casa. Ma i suoi occhi brillavano quando parlava con le nomadi, che
erano
diventate davvero le sue amiche più care e tornavano a farle
visita tutte le
volte in cui si trovavano nelle vicinanze. Ogni volta, con rinnovato
interesse,
si faceva raccontare, per ore, della vita libera e avventurosa che
conducevano,
in giro per il mondo, e di tutto ciò che di nuovo avevano
visto. Nessun’altra
famiglia, in paese, le riceveva in casa, anche se molti davano loro
ciò che
potevano, non perché, come purtroppo accade oggi, ci fosse
il timore che
fossero ladre, o peggio (di solito, a quei tempi
non lo erano, perché i loro uomini
conoscevano dei mestieri che consentivano loro di sopravvivere e che
solo negli
ultimi decenni sono caduti completamente in disuso), ma più
che altro perché,
in un mondo che non conosceva ancora gli antibiotici, l’acqua
corrente, lo
scaldabagno, i detersivi e gli shampoo, le persone abbastanza fortunate
da
vivere in una casa pulita avevano il fondato timore del contatto con lo
sporco,
i microbi e i pidocchi. Solo Nonna Gaia sembrava in grado di vedere un
essere
umano anche dietro un abito strappato e un odore sgradevole.
Cara Nonna
Gaia, quando avevo
diciassette anni, in una tiepida giornata di maggio del
millenovecentosettantuno, partecipai al tuo funerale. Intorno a me non
mancava
nessuno dei tremila abitanti del tuo paese, dal più ricco al
più povero, e
quando tutti passammo, a piedi, sotto i grandi alberi che adornavano il
viale
di fronte alla porta del camposanto, all’improvviso un
venticello gentile ne
scosse le cime e una pioggia di petali bianchi, dolcemente profumati,
ci inondò
tutti, come per dirci che la tua anima stava per essere ricevuta nel
salotto
più bello, dove nessuno ha l’abito strappato, o
emana un cattivo odore.
Chissà
se qualcuna delle tue
amiche ora è lassù con te e prega per il suo
povero popolo che, con
comportamenti devianti e pericolosi, ha finito col meritare almeno un
po’ del
disprezzo e della paura che lo circonda. E’ già
difficile superare le barriere
che ci separano da chi soffre senza colpa, ma ci è quasi
impossibile
avvicinarci a chi non sembra neanche degno della nostra
amicizia!”
Allora
Dolores aggiunse in fretta il titolo “LE AMICHE DI NONNA
GAIA”, spedì il tutto
per e-mail alla figlia, poi corse in cucina a preparare il
caffè per sé e per
Alfonso, che in quel momento si stava svegliando e borbottava, ancora
mezzo addormentato:
“E’
tardi, vero, hai fatto il caffè?”
CAPITOLO
NONO
UN
AMICO DAL PASSATO
Quel
giorno Dolores era uscita prestissimo da scuola, perché i
suoi alunni erano
tutti in gita scolastica, così aveva deciso, dopo tanto
tempo, di andare a fare
un po’ di shopping da sola.
In
passato lo faceva molto spesso, ma da quando si era allontanata
velocemente
dalla taglia quarantaquattro prima, poi anche dalla quarantasei e dalle
successive, non trovava più quasi mai nulla che le piacesse
e le “entrasse”
contemporaneamente, quindi si era dovuta accontentare soltanto della
seconda
delle due possibilità, che comunque non si verificava tanto
di frequente.
Mentre
guardava mestamente una vetrina piena di abiti graziosi dei quali
sarebbe stato
inutile chiedere se per caso ci fosse la sua taglia, si
sentì chiamare
insistentemente.
Non
si girò subito, perché il più delle
volte, quando sentiva chiamare il suo nome
per strada, si trattava di genitori che chiamavano le figlie. Ma questa
volta
non era così, perché due grossi piedi maschili si
affiancarono ai suoi e un
signore decisamente alto e robusto, molto ben vestito e
dall’aspetto distinto,
le appoggiò delicatamente una mano sulla spalla, per
attirare la sua
attenzione.
Si
girò di scatto e riconobbe subito il sorriso simpatico e gli
occhi vivaci della
persona che le stava di fronte, anche se erano passati quasi
quarant’anni
dall’ultima volta in cui lo aveva visto. Era Ciro C. e a quel
tempo era
studente di medicina, e l’aveva anche corteggiata un
po’, per un periodo, ma
poi si era discretamente allontanato quando aveva saputo che Dolores
era già
fidanzata, proprio con uno dei suoi amici, il ragazzo bellissimo che
era ancora
nei ricordi di entrambi.
A
parte il sorriso e lo sguardo, il resto del suo viso era notevolmente
invecchiato, perché, come Dolores aveva già
saputo da un comune amico, Ciro
aveva avuto due volte il cancro e la seconda si era salvato per un pelo.
Dopo
aver preso la laurea in medicina, si era specializzato in psichiatria
ed era
stato anche dirigente di una ASL, ma da pochi mesi aveva lasciato la
professione perché non riusciva più a conciliare
gli orari di lavoro con la
chemioterapia.
Le
confidò, davanti ad un buon caffè, di sentirsi a
disagio, dopo tanti anni di
lavoro frenetico, tra la carica pubblica e lo studio privato, ad
alzarsi la
mattina e non sapere che cosa fare, a parte preparare la colazione per
i due
figli più giovani e qualche volta dare perfino una mano alla
colf polacca a pulire
il bagno!
A
volte tornava nel suo studio, dove tanti pazienti si erano avvicendati
con il
loro carico di sofferenze, ed anche tanti colleghi, psichiatri e
psicologi, che
si rivolgevano a lui per sostegno e confronto (qualche volta anche
conforto)
con i casi più difficili. Lì aveva ripreso dei
vecchi appunti e aveva deciso di
riordinarli per scrivere un libro sull’interpretazione dei
sogni, ma da solo il
più delle volte si annoiava e finiva con
l’addormentarsi.
Impulsivamente,
Dolores gli offrì di lavorare insieme, perché
anche lei conservava molti
appunti, di sogni propri e di amici, e più volte aveva
pensato di trarne un
libro, ma non si era mai decisa a farlo, perché non
riteneva, da sola, di avere
conoscenze ed esperienze sufficienti. Inoltre, le sarebbe piaciuto di
fargli
leggere il diario della sua amica, Elvira, per chiedergli quale fosse
il suo
parere riguardo l’evoluzione della malattia che
l’aveva colpita e le speranze
che fosse definitivamente guarita.
Così
decisero di passare subito da casa di Dolores, a prendere gli appunti,
ed
andare a lavorare allo studio di Ciro, che era a due passi. Il periodo
sarebbe
stato insolitamente propizio, perché anche Dolores non aveva
proprio nulla da
fare, da sola in casa dopo tanti anni di
“sovraffollamento”. Infatti Alfonso,
all’ultimo anno di insegnamento prima della pensione, aveva
deciso di unirsi,
con i suoi alunni, ad uno scambio culturale con una scuola inglese e
sarebbe
rimasto fuori per almeno tre settimane.
Una
volta a casa, Dolores evitò di aprire la cassaforte e
prendere il diario di Elvira,
perché non le sembrava eticamente corretto farlo senza il
suo permesso. Quindi
raccolse soltanto i propri appunti, riservandosi di parlare della sua
amica in
seguito, dopo che avesse avuto il tempo di informarla al riguardo.
Allora
andarono insieme ad aprire lo studio di Ciro, che a differenza della
maggior
parte degli studi medici era al quarto piano di un edificio circondato
da
villette basse in mezzo al verde e quando aprirono le persiane si
riempì di
luce e di sole.
Per
prima cosa lessero insieme un racconto, che Dolores aveva scritto
qualche tempo
prima, sempre in terza persona, e con nomi di fantasia, ispirandosi ad
uno
strano sogno che aveva fatto la notte precedente. Era intitolato,
appunto, “Il
sogno”:
“Marika stava facendo gli gnocchi in cucina
per il giorno dopo, domenica. Sì, perché era
sabato sera, ma a casa sua non
succedeva mai niente, il sabato sera, soprattutto non a novembre,
né tanto meno
mentre pioveva.
Erano le
otto e mezza. Alberto
era seduto in salotto, davanti alla TV, a sognare ad occhi aperti che
un giorno
la fortuna bussasse anche alla sua porta, mentre guardava la puntata di
“Affari
Tuoi”.
Gli gnocchi
per il giorno dopo,
invece, erano, come sempre, affari “suoi”, di
Marika, intendo, che da sola si
stava destreggiando tra le patate bollenti, le mani piene di farina, la
difficoltà di prendere il coltello per tagliare la pasta
senza sporcare tutta
la cucina (come era diverso, quando c’erano le due figlie
adolescenti:
Francesca si offriva sempre di schiacciare le patate, con i suoi
muscoli da
body builder, ed era anche velocissima a cavare gli gnocchi, a due
mani, mentre
Miriam li raccoglieva tutti ordinatamente sui vassoi e poi dava sempre
una mano
a riempire la lavastoviglie e a ripulire la cucina).
Intanto si
domandava come aveva
fatto a finire lì, a cinquantacinque anni, in quella cucina
sporca, con indosso
una vecchia vestaglia infarinata, col seno che le arrivava quasi
all’altezza
dell’ombelico, ma non sarebbe potuto scendere oltre, visto
che oramai si
reggeva sull’addome lardoso.
Chi
l’avrebbe mai detto, a
vederla ora, che era stata una delle ragazze più brillanti e
popolari del liceo
linguistico, quaranta anni prima?
A volte non
ci credeva neanche
lei, ma poi andava a rivedere le vecchie foto, ed eccola lì,
la bella ragazza
in minigonna, che credeva che il futuro sarebbe stato una serie di
conquiste,
non solo di uomini,
ma anche della
brillante carriera che gli insegnanti, entusiasti, le avevano
più volte fatto
sperare di poter conseguire.
In passato,
tanti, troppi, anni
prima, Marika aveva preso quasi due lauree, la prima in lingue
straniere e la
seconda in psicologia, ma, attenzione, ho detto quasi due
perché la seconda era
stata abbandonata ad un passo dalla fine, quando le mancavano solo due
esami e
perfino la tesi era già pronta.
Ciro
fece, con discrezione, qualche domanda a Dolores sui suoi genitori, se
fossero
ancora vivi, ecc. e capì subito come lei, figlia unica,
avesse ancora dei sensi
di colpa per non essere stata più presente, con loro, prima
che morissero.
Inoltre,
come venne fuori dopo, continuando la conversazione, stranamente,
Dolores
sembrava sentirsi in colpa per avere ereditato da loro, quasi avesse
usurpato
qualcosa che non le spettava. Dunque non era esattamente il
comportamento dei
figli a farla soffrire, ma il proprio, nei confronti dei genitori,
verso i
quali, essendo figlia unica, appunto, aveva nutrito evidentemente dei
sentimenti molto forti, sia di segno positivo che negativo, e tutto
questo non
l’aveva aiutata ad affrontare la realtà quando le
erano mancati. Anche Ciro,
alcuni mesi prima, aveva perso la mamma in circostanze dolorose ed
aveva
vissuto un’esperienza un po’ simile a quella di
Dolores, sia pure per motivi
molto diversi, perché lui, essendo medico, era stato molto
presente nella vita
della madre morente e si era naturalmente adoperato con tutte le
proprie forze
per farla vivere il più a lungo possibile. Però
dopo che lei non c’era più
anche lui non aveva potuto fare a meno di domandarsi se era stato
egoista a
prolungarne l’agonia quando già sapeva che non
c’era più nessuna ragionevole
speranza di farla stare meglio.
Dopo
essersi un po’ consolati a vicenda per i lutti che avevano
dovuto affrontare, i
due vecchi amici si lasciarono con la promessa di rivedersi il giorno
dopo per
lavorare insieme al libro che Ciro stava scrivendo, integrandolo con
gli
appunti di Dolores, che Ciro, dopo una rapida scorsa preliminare, aveva
giudicato decisamente interessanti.
CAPITOLO
DECIMO
L’INTERPRETAZIONE
DEI SOGNI
Il
giorno dopo, ripartirono dal diario dei sogni di Dolores e ne lessero
uno
relativamente recente:
Sabato
14 giugno 2008
Stavo
facendo la spesa in un
ipermercato con mio marito. Avevo il carrello pieno e mi stavo avviando
alla
cassa, ma avevo lasciato il carrello a mio marito per andare a prendere
un
altro pezzo di pane. Ne avevo preso uno bello grosso e stavo tornando
alla
cassa per pagare quando mi accorsi che in mia assenza mio marito aveva
abbandonato il carrello e si era allontanato dalla fila.
Così ora le persone
non volevano più lasciarci passare perché
pensavano che volessimo fare i furbi.
Allora mio marito deviò per un’altra ala del
fabbricato, che era deserta,
perché c’erano lavori in corso. Ma anche
lì il passaggio non era agevole perché
bisognava superare una serie di barriere che gli operai avevano messo
tra le
colonne per impedire l’ingresso agli estranei. Lui sembrava
cavarsela
relativamente bene, in quella situazione che aveva scelto, ma io facevo
molta
fatica a seguirlo …
“Che
ne pensi, Ciro, significa davvero quello che credo, cioè che
la mia vita con
mio marito tende a diventare molto diversa da quella che sceglierei di
vivere
se fossi un po’ più libera di fare ciò
che preferisco?” domandò Dolores alla
fine della lettura.
“E’
possibile”, rispose “ma onestamente non lo so,
perché non ci siamo più visti
per tanti anni e invece dovrei conoscerti un po’ meglio per
essere sicuro di
capire i meccanismi alla base dei tuoi sogni; magari, continuando a
leggere,
finiremo per scoprire se ci sono temi ricorrenti. Oppure, se proprio
vuoi che
ci imbarchiamo insieme in un’avventura nel tuo inconscio, mi
dovresti aiutare
parlandomi un po’ anche di quello che fai e pensi durante il
giorno. Ti va?”.
“Perché
no? Ho sempre desiderato di imparare qualcosa in più sulla
psicoanalisi e
questa che mi offri potrebbe essere una splendida occasione! Abbiamo il
tempo
di leggere un altro sogno?”
“Io
di tempo ne ho anche troppo, ultimamente!”
“Io
di solito no, ma ora che mi trovo a stare completamente sola in casa,
per la
prima volta dopo tanti anni, mi accorgo che la noia, la solitudine e
l'inattività possono davvero diventare le cose
più brutte da affrontare nella
vita”.
Quindi
passarono a leggere degli altri sogni:
Martedì
19 febbraio 2008
Un
importante negozio al Corso
aveva messo le ultime svendite a prezzi molto convenienti. Ero andata a
misurare dei vestiti con le mie figlie e qualche amica ed ero stata
sorpresa di
trovare molte cose della mia taglia anche fra i modelli per donne
giovani.
Alcune delle cose che avevo misurato mi stavano sorprendentemente bene,
al
punto che mi domandavo se in quel negozio non avessero per caso gli
specchi che
allungavano la persona e poi tornando a casa avrei trovato che sembravo
molto
più grassa di come mi ero vista lì. Mentre
misuravo, avevo visto che una delle
mie colleghe indossava un abito che mi piaceva molto e che avrebbe
dovuto
starmi bene, quindi le avevo chiesto di cercarmene uno uguale della mia
taglia,
ma lei mi aveva risposto che non capiva bene come fossero indicate le
taglie in
quel negozio, quindi me ne aveva dato uno, dicendomi di controllare se
era più
grande o più piccolo del suo. Mentre controllavo, mi ero
accorta che la taglia
probabilmente sarebbe stata giusta per me, e la fantasia del vestito
era
proprio quella che cercavo, ma il modello non mi sarebbe andato bene
perché era
la versione con i pantaloni corti invece che con la gonna al ginocchio,
quindi
mi ero avvicinata allo stand per cambiarlo e forse avevo trovato quello
giusto,
anche se le indicazioni relative alla taglia non erano affatto chiare.
In uno
degli specchi vedevo anche riflesso un uomo giovane e bello,
elegantemente
vestito, che forse era un commesso, o forse era un mio amico, dunque lo
specchio era messo in modo tale che se io vedevo lui, lui probabilmente
vedeva
me. Perciò mi ero spostata un po’ e lo avevo
guardato e forse avevo fatto una
battuta perché avevamo sorriso entrambi, però non
ero riuscita lo stesso a
capire se gli specchi erano truccati o no, perché, a
differenza di me, il
giovane, nella realtà, era più magro e non
più grasso del suo riflesso nello
specchio. Comunque avevo messo da parte alcuni abiti, che avevo
intenzione di
comprare, ed ero andata in un altro piano dello stesso negozio, per
guardare
altre cose. Poi ero tornata al piano di sopra e avevo trovato che i
prezzi
erano stati ulteriormente diminuiti. Per un attimo mi ero congratulata
con me
stessa, per aver aspettato ad andare alle casse, però poi mi
ero accorta che
non era rimasto quasi nulla, specialmente nella mia taglia. Avevo
cercato i
vestiti che avevo messo da parte prima, ma le persone dovevano aver
comprato
anche quelli. Mi domandavo se ero stata imprudente io a lasciarli
incustoditi o
disoneste le altre donne a fingere di non capire che quei vestiti erano
già
stati scelti da me; avevo deciso che erano state disoneste le altre
perché al
posto di uno dei vestiti, che avevo scelto, me ne avevano lasciato un
altro che
somigliava vagamente al mio, ma era meno bello e di qualità
più scadente,
quindi avevano voluto ingannarmi di proposito. Pensai che forse avrei
potuto
andare in qualche altro negozio, a Napoli, che vendesse le stesse cose
ma che,
non trovandosi al Corso, forse non era stato ancora preso
d’assalto, però non
ero sicura di riuscire a trovare proprio i modelli che avevo scelto e
poi ero
molto scoraggiata per l’accaduto, quindi probabilmente avrei
lasciato perdere …
Avevo della
lana rosa e stavo
provando un punto all’uncinetto, che ricordavo, per averlo
usato tanto tempo prima,
forse per una maglia. Guardando il lavoro che progrediva, pensavo che
avrei
potuto ricavarne una sciarpa elegante per me, però avrei
dovuto lavorare molto
a lungo e non ero sicura di volerlo fare. Poi, guardando bene il
lavoro, mi ero
accorta che non mi piaceva tanto. Infatti evidentemente avevo
dimenticato il
punto originale e quello che avevo realizzato lo ricordava solo in modo
molto
approssimativo: mi domandavo se i pieni e i vuoti erano distribuiti a
righe,
come lo stavo realizzando io, o a scacchi. Poi mi ero ricordata che il
punto di
tanto tempo prima non realizzava un disegno di righe, ma più
simile a dei rami
con tante foglioline, quindi avrei dovuto ricominciare tutto daccapo,
se avessi
voluto tentare di realizzare davvero il punto che ricordavo …
“Dolores,
tu fai l’insegnante di inglese, vero?”
“Sì
…”
“Ti
piace il tuo lavoro?”
“A
volte sì, a volte no, però se avessi potuto
scegliere liberamente, come forse
sai, avrei voluto fare la psicologa”.
“E’
vero, lo dicevi sempre al liceo, perché poi cambiasti
idea?”
“Perché
allora la facoltà di psicologia era solo a Roma e i miei
genitori, e anche
Alfonso, ce la misero tutta per convincermi a sceglierne una
più vicino casa.”
Martedì
26 febbraio 2008
Ero
alloggiata, con mio marito,
nella torre di un grande albergo, di proprietà di un
dentista. Ero scontenta
del lavoro che quel dentista aveva fatto per me. Nell’albergo
era alloggiata
anche una ragazza che aveva il mio stesso problema. Un giorno lei
decise che la
notte successiva avrebbe dato fuoco all’albergo, per
dispetto, e me lo disse.
Io probabilmente non diedi grande importanza alle sue parole,
perché andai a
dormire in camicia da notte, come sempre. Poi, durante la notte, mi
accorsi che
la mia stanza era in fiamme in più punti. Allora dissi a mio
marito che
dovevamo scappare, ma lui non si muoveva e tentava invece di spegnere
le
fiamme. Io sapevo che il fuoco veniva da fuori e quindi se non ci
fossimo
sbrigati presto avremmo trovato bloccate tutte le vie di fuga. Infine
convinsi
mio marito e scappammo insieme nella notte fredda indossando solo la
nostra
biancheria da notte. Lungo la strada, vidi che tutte le altre persone,
che
stavano scappando, erano vestite di tutto punto, come se fossero state
a
conoscenza di ciò che sarebbe accaduto e stessero aspettando
solo di andare
via. Davanti a noi, in particolare, notai una signora un po’
grassa, con i
capelli ricci, di colore castano chiaro, che aveva trovato il tempo di
mettere
i collant e le scarpe nere con un po’ di tacco, prima di
fuggire col marito e
uno o due bambini …
Era il
giorno del mio compleanno
e piangevo singhiozzando stesa su un letto. Dietro i vetri di una
finestra del
primo piano, mia madre mi guardava e piangeva anche lei: forse era
addolorata
per me, ma quando scese giù mi disse qualcosa con un tono di
voce normale, come
se non volesse parlare di ciò che ci tormentava. Poi mi
chiese di comprarle un
nuovo cellulare, perché quello che le avevamo comprato aveva
preso fuoco una
volta e temeva che potesse accadere di nuovo. Avevo chiesto a Francesca
di fare
a cambio di cellulare con la nonna, perché non credevo che
quello fosse
realmente pericoloso, dato che Alfonso ne aveva uno uguale ed era
sempre andato
bene. L’idea era di dare alla nonna il vecchio cellulare di
Francesca, che era
molto più grande e quindi più facile per lei da
usare. A lei avremmo detto di
averlo comprato nuovo, così avremmo risparmiato dei soldi.
Però temevo che
mamma se ne sarebbe accorta che il cellulare era vecchio,
perché la batteria si
scaricava troppo spesso. Comunque speravo che lei non ne facesse uso
frequente
e quindi le durasse un po’ di più. Ma dopo un
po’ ricominciai a sentirmi in
colpa, per aver dato a Francesca il cellulare difettoso e non potevo
fare a
meno di pensare che se non lo avessi considerato pericoloso lo avrei
tenuto per
me invece di rifilarlo a lei.
“Com’è
il tuo rapporto con Francesca?” domandò allora
Ciro “A volte, dai tuoi sogni,
soprattutto da quelli un po’ meno recenti, che sono
nell’altro quaderno, quello
che lasciasti ieri allo studio, ho avuto la sensazione che le tue
figlie, nei
tuoi sogni, stiano per parti di te. Anche tua madre, e perfino tuo
marito, a
volte, nei tuoi sogni, sembrano essere parti di te, un po’ in
conflitto tra
loro.”
“E’
vero, sai, qualche volta lo avevo pensato anch’io!”
rispose perplessa Dolores.
Poi
continuarono a leggere:
Mercoledì
27 febbraio 2008
Ero in una
grande palestra a fare
ginnastica. Ci avevano fatte disporre su due file e dovevamo muoverci
da
sinistra a destra e viceversa. Però ero l’ultima
vicino al muro, quindi avevo
pensato che una volta raggiunto il muro dovessi muovermi nel verso
opposto.
Invece l’istruttrice mi aveva detto di no, che dovevo
fermarmi dopo pochissimi
passi, e questo non mi aveva fatto piacere. Poi le due file dovevano
incrociarsi, formando una coreografia. Mi stavo divertendo,
però ero urtata col
piede scalzo contro l’unghia dell’alluce di
un’altra ragazza ed ora avevo un
taglio sotto la pianta del piede su cui si era formata
un’enorme bolla. Avevo
pensato che non potevo restare così a rischiare
un’infezione e dovevo invece
andare dal dott. Antonucci a farmi disinfettare. La mia amica Rossana,
che
sospettava di essere stata lei ad urtarmi, si era offerta di
accompagnarmi dal
medico e poi a casa. Le avevo detto che se voleva aiutarmi avrebbe
dovuto
fermarsi anche per la notte, perché mia madre era via da
Napoli per qualche
giorno ed io non ero in grado di occuparmi di mio padre da sola. Lei
aveva
accettato, però dovevamo andare prima insieme a casa sua a
chiedere il permesso
a suo padre. Quando arrivammo, suo padre era seduto a tavola e nella
stanza
c’era un po’ di confusione, infatti il professore
Amendola sembrava non sentire
la mia voce sottile e timida. Ma poi aveva capito e aveva detto di
sì e ci
eravamo avviate. Allora Rossana mi aveva chiesto di invitare un
po’ di amici a
casa quella sera. Le avevo risposto di non invitarne più di
cinque o sei, o al
massimo dieci, perché la mia stanza non era tanto grande e
mio padre non
avrebbe gradito di avere la casa invasa di ragazzi rumorosi. Anzi,
bisognava
dire a quei dieci di arrivare tutti insieme, e di entrare in punta di
piedi,
così avremmo fatto credere a mio padre che non erano
più di due o tre. A quel
punto Rossana mi confessò che ne aveva già
invitati 700 ed io la obbligai a
fare un messaggio cumulativo dal suo cellulare per avvertirli che la
festa era
stata cancellata. Rossana era molto seccata però
obbedì. Poi andò a comprare
del prosciutto e della mozzarella per la cena di papà. La
mattina dopo mia
madre ritornò con un giorno di anticipo e mi
sgridò per avere invitato l’amica
a casa. Cercai di spiegarle l’accaduto, ma lei sembrava non
capire e invece mi
portò in giardino a vedere dei grossi vassoi rotondi con
tanti buchini, come se
fossero setacci, o scolapasta, e sembrava che li considerasse la prova
di una
mia grave colpa che io però sapevo di non aver commesso. I
vassoi erano stati
nascosti nelle aiuole e coperti uno ad uno con dei canovacci.
L’unica
spiegazione che potevo darle era che probabilmente Rossana li aveva
portati
senza dirmelo la sera prima per usarli alla festa, ma mia madre
sembrava ancora
incredula e seccata con me. Allora mi portò a vederne ancora
un altro, molto
simile ai precedenti, ma di forma ovale e con i bordi schiacciati, come
se nel
tempo avesse subito dei danni. Anche quello doveva essere stato portato
la sera
prima da Rossana con lo stesso scopo degli altri e non riuscivo a
capire che
significato speciale mia madre attribuisse al fatto che era
danneggiato, forse
era semplicemente vecchio …
Lessero
ancora molti altri sogni.
“Decisamente
interessanti, i tuoi sogni.” commentò Ciro,
“E interessante trovo anche il modo
in cui a volte tu sembri già analizzarli, prima ancora di
svegliarti! Ho anche
notato che a volte compare un “terzo uomo”, che ti
guarda da lontano, ti
sorride, ti approva … E’ una nuova conoscenza o
è quello che penso io?”
“E’
quello che pensi tu!”
“Sai,
forse è giunto il momento di lasciarlo riposare, e di
liberarti anche tu da
questa catena, che forse ti impedisce di godere pienamente di
ciò che hai. Se
devo essere sincero, ho la sensazione che tu sia molto affezionata a
tuo
marito, nonostante le divergenze di carattere e di opinioni,
però non ti lasci
andare perché ti sembra di fare un torto a chi non
c’è più.”
“E’
vero, sai, è da un po’ che ci stavo pensando
anch’io, da quando Alfonso è
partito per la sua lunga gita scolastica e mi sono accorta che mi manca
tanto
da mozzarmi il fiato.”
In
quel momento si accorsero che si era fatto molto tardi, quindi si
salutarono e
si separarono, con la promessa di rivedersi al più presto.
CONCLUSIONE
Qualche
volta
I
SOGNI SI AVVERANO!
Tornando
da scuola, quel giorno di gennaio del 2012, Dolores aprì la
cassetta delle
lettere e ne trovò una della sua cara amica Elvira:
Carissima,
non puoi
immaginare quanto sono
contenta! La tua idea di farmi conoscere il tuo amico George si
è rivelata luminosa.
Ti ricordi quando a Pasqua di due anni fa mi parlasti di lui e di
quanto si
sentisse solo, essendo appena andato in pensione, poi mi mandasti il
suo indirizzo
e-mail perché potessimo cominciare una corrispondenza
amichevole, anche perché
mi potesse aiutare a capire i libri di inglese che avevo trovato
così difficili
all’università? In effetti non è stato
per niente facile riprovare, alla mia
età, ad iscrivermi a lingue, così come avevo
sempre desiderato in gioventù (fin
da quando avevo ricevuto l’incoraggiamento dei miei
insegnanti volontari,
mentre ero ancora in quel terribile istituto in Toscana), ma non avevo
mai
osato fare, anche perché troppo presto mi era mancato il
consiglio e l’appoggio
del mio amico psichiatra.
George mi
rispose subito, in modo
molto esauriente e forse mostrandosi perfino un po’ troppo
pignolo. Così,
appena superai l’esame di inglese, decisi di invitarlo a
passare una settimana
da me, nella mia piccolissima casa
che
avevo appena comprato a Napoli essendo entrata in possesso, come sai,
della mia
parte dell’eredità di mio padre.
Lui non se
lo fece dire due volte
e prenotò subito un volo Last Minute per Roma, poi, come gli
avevo consigliato,
prese un treno per Napoli.
Quello che
successe poi te lo racconterò
a voce appena possibile.
Ora vorrei
solo che mi dicessi se
ti va di fare da testimone alle nostre nozze, che avverranno fra due
mesi
circa, non abbiamo ancora stabilito la data precisa.
Saluti e
baci,
Elvira
Sorridendo,
Dolores prese carta e penna e cominciò a scrivere:
Carissima
Elvira,
Mi dai una
notizia meravigliosa.
Sarò
felice di fare da testimone
alle tue nozze.
Anche per me
molte cose sono
cambiate in meglio dalle ultime volte in cui ci siamo sentite.
Mi sembra di
ricordare che qualche
anno fa, prima che tu partissi per l’Inghilterra, ti
raccontai al telefono del
mio incontro con Ciro e del libro che stavamo scrivendo insieme
sull’interpretazione dei sogni. Tu non puoi saperlo,
perché sei appena tornata
dall’estero, ma noi poi lo pubblicammo, e avemmo un successo
strepitoso, e da
allora decisi di iscrivermi di nuovo a Psicologia, quindi diedi gli
ultimi due
esami e presi la laurea.
Ora
lavoriamo insieme nel
pomeriggio, ma ho già dato le dimissioni dalla scuola, con
decorrenza dal primo
settembre prossimo, per dedicarmi a tempo pieno al mio nuovo lavoro.
Intanto sto
conducendo una vita
frenetica, ma ricchissima di soddisfazioni.
Figurati che
sono dimagrita di
quasi venti chili, e mi sento anche venti anni di meno!
Come avrai
potuto capire, devo
tutto al mio vecchio amico, che dalla lettura dei miei sogni si
è reso conto
che la mancata realizzazione nel lavoro pesava molto sul mio senso di
insoddisfazione e di frustrazione, e mi portava anche a mangiucchiare
dolcetti
da mattina a sera.
In
realtà lo sapevo anch’io, però
avevo bisogno di incoraggiamento per rimettermi in gioco alle soglie
dei
sessant’anni!
Non vedo
l’ora di rivederti.
Baci,
Dolores.